De’ Terremoti della Calabria Ultra nel 1783 e 1789

Suolo avallato a figura quasi circolare nel distretto della contrada detta la Giuseppina in Poliftina, e lago ivi prodotto

di 

Vincenzo De Filippis

Fonte: https://blogalladeriva.blogspot.it/2006/09/de-terremoti-della-calabria-ultra-nel.html

 

Al signor SEBASTIANO CANTERZANI

SEGRETARIO DELL’ISTITUTO DELLE SCIENZE

DI BOLOGNA

E SOCIO DI VARIE ACCADEMIE

Fiera e difficil materia di ragionare mi avete data, Sig. Torquato [?] carissimo; avendomi imposto che io scriva del terremoto della nostra Calabria, or volge il settimo anno accaduto.

E di vero, come potrò io ciò fare con animo riposato e tranquillo, pensando che un così terribil fenomeno abbia nello spazio di pochi istanti ridotta una delle più belle, e ricche, e beate regioni della nostra Italia, e dove io nacqui e dove dolcemente vivea., in un teatro di miseria, di desolazione e di lutto; e donde poi tanti altri mali son nati e tanti pietosi altri strani accidenti, dai quali non posson del tutto rivolger l’animo se non gl’insensati? […] E’ altresì la causa del fenomeno molto oscura; né io tra la confusione, il timore, e i disagi, ho potuto formare una storia esatta e legata de’ fatti. Ma poiché a voi, a cui era noto l’essere stato io di tanta sciagura gran parte, ed eran note le mie angustie e difficoltà, da mia naturale insufficienza, è pur piaciuto impormi questo carico; io sono presto di obbedirvi, così veramente che siate disposto scusare i miei errori e le mie negligenze.

Tra le quali, però, non credo che annoverar vogliate il non avere io formato un esatto giornale di tutte le scosse e loro gradazioni e durata; poiché meco converrete, non potersi in siffatta materia andar dietro a tutte le minuzie; né potendosi, esser cosa molto utile il farlo.

E difatti, mostrando questo fenomeno non aver periodo certo, né serbar ordine alcuno, o essere a legge costante soggetto; e venendo accompagnato da tante e così varie cagioni accidentali e circostanze estrinseche; comunque grande e scrupolosa sia la diligenza che si adoperi nel definirne uno, non si giungerà mai, lo che sommamente importerebbe, a renderci cauti ed accorti a prevedere e fuggire quei che sopravverranno. Oltreché non tutte le scosse sono state generali per tutta Calabria; né quelle egualmente sensibili, di eguale durata in ciascun luogo. E poi, come aversi una misura esatta del tempo, venendo dalla scossa ogn’istrumento stranamente agitato e sconvolto? […] Quindi è, che io stimo un tal giornale impossibile; a men che non si voglia formare la storia delle proprie sensazioni, prodotte spesso dall’agitata fantasia, o da tutt’altro che dal terremoto. Il perché, restringendomi ai fatti principali e conducenti alla spiegazione del fenomeno, comincerò di qui il mio ragionamento.

La Calabria, che negli antichissimi tempi forse non conteneva che la sola e nuda catena degli Appennini, riconosce in gran parte le sue alterazioni e la varietà dei suoi aspetti da’ vulcani, che di quando in quando si sono accesi nei monti, o sorti dal mare che la circonda. Che ove da principio non presentava nelle sue montagne primitive che un so che di rozzo, semplice ed uniforme e sterile; divenne col tempo una delle più belle, variate, ridenti ed anche delle più fertili regioni del Mondo; ove dall’amenità allenate, e dalla fecondità invitate, si fondarono e fiorirono poi tante repubbliche e tante scuole famose; e fu per lungo tratto il dolce soggiorno delle Grazie e delle Muse. Ma per passare dal primitivo stato in tanti altri e diversi, quante catastrofi non ha ella dovuto soffrire? […] I vulcani non ardono senza distruggere e desolare all’intorno; né senza essere preceduti ed accompagnati da orribili tremuoti, che fan provare i loro funesti effetti molto al di là delle loro origini.

Sicché, per dura fatalità, quest’ultima parte d’Italia dee riconoscere la sua bellezza ed altri suoi pregi dalla cagione stessa sua desolatrice.

E similmente tutte le altre cagioni, che tanto contribuiscono alla maravigliosa fertilità di questo suolo, come materie marziali e fermentanti, acque minerali, e più altre, han parte ancora, come l’esperienza il dimostra e voi ben sapete, alla formazione dei fulmini, all’incostanza e varietà dei venti, a tante altre meteore che sono qui più che altrove frequenti; ed in generale ad alterare e variare così di continuo lo stato dell’atmosfera. Ma sopratutto influiscono ai tremuoti, qualunque di essi sia la principale cagione.

Non passa, di fatti, qui anno, che i terremoti no si facciano sentire; né è mai scorso mezzo secolo, che i medesimi non avessero or una parte, or altra, ed or tutta questa regione, fieramente desolata ed afflitta.

Essendo, dunque, la Calabria per fisico temperamento così disposta e soggetta ai terremoti; avvenne che in tutta la primavera, està, e parte dell’autunno dell’anno 1782, regnò qui un’estrema siccità; per cui caldissima e secca divenne l’aria; poverissime e quasi esauste le fonti, ed i fiumi; aride le campagne; il suolo bruciante; così che in alcuni boschi si eccitò il fuoco dal solo soffregamento dei rami fra di loro.

Verso la fine di ottobre caddero dirottissime pioggie; e tutto il rimanente dell’autunno e i principi dell’inverno furono piovosissimi.

Principio delle nostre sciagure fu la notte dei sette di dicembre. Tutto quel giorno la pioggia era stata copiosa e continua; la quale poi, venuta la notte, divenne tempesta fierissima; cui rendevano spaventevole il nero buio rotto da spesse folgori, e il continuo fragore dei tuoni; dei cui funesti effetti ancor si risente tutta la Provincia, ma singolarmente la città di Nicastro.

Giace quella nelle radici dei più alti Appennini di quella contrada, i quali chiamansi volgarmente i monti di Reventino; da cui hanno origine vari fiumi e torrenti, che la dividono e la circondano. Uno tra gli altri detto di Terravecchia, dal contiguo borgo di questo nome, che sorge dalla più alta cima di quei monti, diviene l’inverno impetuosissimo per le torbide piene che seco conduce. Ma quella notte, sì per la continua pioggia e molto più per un grandissimo e terribile tifone che piombò sopra di quella cima, crebbe a tal segno e divenne così gonfio e furibondo, che rotti gli argini senza ritegno, seco trascinava montagne di pietra ed alberi di sterminata grandezza, e tutt’altro che incontrava; le quali cose, finché le acque furono strette ed unite ed in declivio, non mai si arrestarono; ma venute quelle al piano ed al largo, e quindi debilitata la loro forza, cominciarono a deporsi e fermarsi; e sì alzandone il letto e impedendone il corso, le acque, piegandosi verso le sponde, gittaronsi nei boschi adiacenti; ed in tanta altezza montarono, che superate le alte finestre degli edifizi, per quivi furiosamente si cacciarono.

Alla gente immersa in profondo sonno, l’avvedersi del soprastante pericolo, e trovarsi in balia del torbido torrente, fu un sol punto; il quale sordo, inesorabile tutto abbatte, distrugge, sommerge, ingoia, seppelisce; ed indi rapido, impetuoso corre a devastare le campagne più fertili, i colti uliveti, i seminati, spargendo di cadaveri il terreno; recando, insomma, la morte e la rovina a tante famiglie, le quali o furono del tutto spente, o rimasero nella miseria estrema, essendo prima agiate e ricche. Furono quelle morti duecentocinquanta in circa. Né fuvvi fiume, o torrente, o rivo, o fonte, che in quella notte non recasse, secondo sue forze, grave danno alla nostra Provincia, come infausto presagio del gravissimo che le si preparava. Non così orridi e foschi però furono gli ultimi giorni del vegnente gennaio, ed i primi quattro di febbraio; che anzi comparve il sole chiaro e ridente, e si respirò l’aria tepida e pura.

La mattina dei cinque di detto mese, giorno di mercoledì, un torrente di densa e bassa caligine correva velocemente dalla parte di greco levante verso la regione opposta, senza però che da quella parte vento impetuoso traesse: e questo fu insino alle ore diciannove ed un quarto in circa, nel qual punto le nuvole conglobate e strette, quasi immobili, a poca altezza del suolo si mantenevano.

E rimanendo così, verso le ore 19 e tre quarti, si sentì una scossa, che da principio fu simile alle solite avvenute a ciascun anno; ma appena parendo di essere cessata, riprese maggior vigore; ed in tal impeto giunse, che in un batter d’occhio distrusse quasi intieramente quella parte della Provincia, che chiamasi volgarmente La Piana; e diè il guasto a tutto il resto.

Fu essa preceduta da una romba cupa e sotterranea; il qual fenomeno fu poi di tutte le scosse il nunzio fedele. Il moto veniva principalmente dalla parte di libeccio, ma cangiava stranamente ad un tratto; così conveniva da uno in un altro genere affatto diverso. In tutta la durata, udivasi un certo sibilo spaventevole; ed un cotal rumore, singolarmente sui tetti e nei vetri delle finestre, simile a quello che vi produce la gragnuola spinta da impetuoso vento; ed i rami degli alberi vidersi contorcere, e divincolare, e piegare sino a terra. Questa prima, che fu sicuramente la più terribile e memoranda per gli effetti che produsse, ebbe il suo principal centro in quella stessa regione, che principalmente sconvolse.

Il resto di quel giorno fu la terra in continua convulsione; ma niuna insigne scossa vi fu fino alle ore sette in circa della notte, in cui fuvvene una egualmente gagliarda che la prima, ma non di lunga durata; e rovinò il resto della Piana.

Fu quella notte, fatale, tra gli altri, al Conte di Sinopoli Dr… Ruffo [ma, forse, D. Fulco Antonio Ruffo], ed a più di 300 abitatori di Scilla; li quali essendosi ricoverati in alcune barche, che erano in quella Marina, furono dalle acque del mare, dopo la scossa delle ore sette, tutti assorti e miseramente ingoiati.

Vi furono di molti, i quali smaltirono che le acque del mare, in sul declinare di quel giorno, contraendosi e lasciando secche le sponde, si fossero nel mezzo ammontate; aggiungendo alcuni che erano calde, e che i pesci si vedevano guizzare nell’asciutta e bruciante arena; e che quindi la seguente notte, sciolta la forza contraente, si fossero impetuosamente cacciate dentro terra, per tanto spazio per quanto se ne erano allontanate; e che nel ritirarsi avean portato seco quegl’infelici.

Ma fu questa una fola capricciosa, giacché niente alterazione soffri il mare in quel giorno; e la cagion vera di così strano accidente deve attribuirsi ad una rupe, la quale disgregata pel tremuoto dal monte, in una dell’estremità del seno, che ivi forman le rive, spinse stranamente le acque, le quali corsero verso il lido, ove niuna resistenza loro si opponeva; così allagandolo, annegarono quelli, che vi si erano come in sicuro porto ricoverati.

Da quell’ora insino al venerdì vegnente, come che molte fossero state le scosse, pure niuna ne avvenne di gran momento.

La mattina di quel dì, quasi gli stessi fenomeni comparvero che nel mercoledì: il sole pallido, l’aria fosca e quieta; ed alcune nuvole di color piombo e brunite si vedevano strette ed immobili. Ond’io previdi che altro fatal tremuoto si preparava.

Di fatti, alle ore venti in circa, preceduto da orribil romba, una poderosa scossa si fe’ sentire. Ebbe principal sede in quella parte della Provincia, che è alle vicinanze del monte Caulone; la quale fu quasi interamente distrutta.

Da questo tempo insino alla notte dell’ultimo di febbraio, varie scosse si sentirono: alcune universali, ed altre locali e dì mediocre intensità. Forti furono quelle che avvennero in quella notte verso le ore 9, ed in sull’aurora del primo giorno di marzo, dopo essere, in molti luoghi, caduta della gragnuola; la quale scossa fu nella mia Patria da un bel fenomeno accompagnata; cioè si videro le punte di una croce di ferro, che era nella cima della facciata di una chiesa nominata dei Sette dolori, alcuni pezzi di ferro che incatenavano le mura di essa chiesa e quelli che sostenevano la campana, tutti illuminati e scintillanti. Quel fenomeno fu anche da altri, in altri luoghi, ed in altre scosse, osservato.

Era già buona parte di quel mese passato senza tremuoto di molta conseguenza, anzi senza essersi niuna scossa sentita da noi altri abitatori della parte più settentrionale della Provincia. Tra’ quali molti, credendo ormai stanca la terra di più convellersi, avvisarono meglio alla salute prevedere ricogliendosi nuovamente nelle loro case (che poco o niuno danno aveano per lo innanzi sofferto) che di vivere più oltre in tanto disagio, in umili e strette capanne, esposti all’intemperie e specialmente agl’impetuosi venti, che qui, per la strana posizione delle valli e dei monti, regnano più che altrove. Ma pagarono col sangue il difetto del loro consiglio; perciocché nella sera dei 18, all’ora prima incirca, accompagnata da un rumor cupo, sopravvenne una terribile scossa; la quale come fu per questa regione la più funesta, avendola stranamente guasta e morti buona parte dei già scampati, così fu la più sensibile, e recò maggior spavento.

Avendo così il tremuoto scossa tutta l’intera Provincia, portando ovunque la distruzione e l’orrore; calmossi alquanto, facendosi, così di rado, leggiermente sentire. E ciò fu per insino ai dieci di agosto di quell’anno; in quel giorno, in sul meriggio, con una scossa non piccola, fece ritorno. Essa fu dalle solite nuvole preceduta ed indicata, ma non così copiose, nè così basse o strette, come quelle della stagione meno calda. Non potè recare grave danno, perciocché poi altro non era rimasto sopra cui sfogare il suo furore. E questa può dirsi l’ultima di quelle, che in quel tempo si fossero in tutta Calabria appercepite.

Dalle cose fin qui narrate, si raccoglie quattro essere state le scosse le più gagliarde e distruttrici, e perciò le più insigni; le quali ebbero in tre punti diversi il loro centro. cioè, la prima dei cinque di febbraio e l’altra della notte seguente: le quali come ebber lor centro nella parte più meridionale della Provincia, così ivi recarono il maggior danno. Quella dei sette, che distrusse la regione che piega ad oriente, e dicesi retromarina, ov’ebbe origine. E la quarta dei ventotto di marzo, che accostandosi alla parte più settentrionale, fu a questa, più che alle altre, di maggiore sciagure.

Di tutte, la più lunga fu certamente la prima: ma io non oserei affermare qual sia stata la più gagliarda, come che altri l’abbia francamente deciso; perché, a parer mio, l’unico mezzo sarebbe stato se l’istessa persona si fosse trovata in pari circostanze nei rispettivi luoghi ove le scosse ebbero loro centro; giacché la forza maggiore o minore della scossa non può dedursi dalle maggiori o minori rovine; provenendo queste non dalla sola energia della forza scuotente, ma da tante altre circostanze accidentali e locali, e specialmente dalla qualità ed indole del suolo; le quali qui variano ad ogni passo, e lo rendono atto a trasmettere un moto regolare, o perturbato.

Essendosi finora notate le scosse, esporrò alcuni fenomeni particolari, che all’esplicazione della causa di così terribile flagello possono condurre.

Prima d’ogni altro, io notai i seguenti, con ordine costante l’uno all’altro succedere: cioè, le nuvole brunite, aggruppate ed immobili erano le foriere della scossa: la quale era immediatamente preceduta, come sì è detto, da una romba cupa e sotterranea. Dopo la scossa, dissipavansi immantinente le nuvole, e seguiva un vento proveniente da quella parte donde quella veniva: al vento succedeva la pioggia, a cui l’aria serena; la quale come si andava più riscaldandosi, così acquistava quel color fosco e tetro; e vi si formavano nuovamente quelle nuvole, di nuovo tremuoto indizio sicuro.

Oltre a questi, i quali per lo più a ciascuna scossa avvenivano, e che potevan dirsi fenomeni generali, conviene notarne degli altri, che or in una, or in altra scossa osservavansi. Tali erano quei crepiti, che precedevano e accompagnavano le scosse, e che sentivansi nelle fessure vecchie delle mura e nei vetri delle finestre.

Quanti e quali non se ne sentirono nella prima scossa, così che pareva che grandinasse? […] Tale sensazione in me produssero. Tali quei colpi che molte volte, nell’atto della romba, nelle piante dei piedi provavansi, qualora erano sul suolo poggiate.

Tali quei divincolamenti e contorcimenti dei rami degli alberi, come se fossero da poderosi colpi nel tronco scossi. Tali quegli scoppi, che dettero alcune pietre (come avvenne nella terra di Cropani) che erano fabbricate nei pilastri della chiesa parrocchiale.

Notai io il dorso di un monticello arenoso vicino alla piccola terra di Caraffa, fesso in lungo, e l’arena sparsa di qua e di là a lunghe distanze. Ed in pari luoghi osservai delle pietre ridotte in minuzzoli; singolarmente in un monte alto dei nostri Appennini, che riceve il nome dell’antica mia Patria.

Per ogni dove poi vidersi chiudere le fontane le più perenni, ed aprirsene delle nuove e copiose ove per lo innanzi niun vestigio se ne scorgeva. Nell’atto di molte scosse, alcuni furono sorpresi da una vampa, ed altri come afferrati a traverso, ed a molti un subito e repentino calore corse per tutte le membra; cui di poi rimase un giramento di capo, e lo stomaco sconvolto, come accader suole a chi va in barca.

Dai fatti finora esposti, siccome a me pare che la cagione del nostro terremoto da per sé senza niuna ricerca si manifesti, così non dubito punto che voi, Ornatissimo sig. Torquato, non l’abbiate conosciuta o ravvisata. Il perché potrei ristarmi di scriverne. Ma poiché voi non siete stato contento di impormi il solo e semplice racconto dei fenomeni, ma della loro cagione avete voluto che io schiettamente vi favellassi; io che mi sono recato a fare in tutto i vostri piaceri, sì il farò anche in questo; e così mi piace di ragionare.

Quell’estrema siccità cominciata in sulla fine dello inverno, che per tanti mesi regnò nelle Calabrie, dovette necessariamente produrre due effetti tra glia altri. L’uno d’impedire il libero passaggio del fuoco elettrico dalla terra all’atmosfera; giacché siccome l’aria è un mediocre deferente, quando è umida, così è ottimo isolante, quando è secca. E tal dovea essere certamente; e più quella di lei parte che era alla terra contigua; giacché i vapori di cui per l’azione fervente del sole era saturata, per la continua e straordinaria forza attenuati e dilatati fuor di modo, occupavano la parte superiore dell’atmosfera, donde poi non si sciolsero in pioggia se non nell’autunno, in cui regnar dovette maggior grado di freddo. La superficie stessa del suolo ingombra di vegetabili resi per la grande arsura aridi, era come isolante, al libero passaggio del fuoco elettrico di ostacolo.

Per tutto quel tempo, dunque, l’aria trovossi elettrizzata per difetto, e la terra per eccesso.

L’altro effetto fu di arrestare il corso delle giornaliere fermentazioni, per mancanza del debito umido.

Dunque, nelle visceri della terra, come un gran cumolo di fuoco elettrico, così un copioso ammasso di materie marziali e fermentanti formossi; e singolarmente nella nostra Provincia, a dovizia di siffatte materie abbondante. Piovvero quindi le acque, le quali trovando il suolo per la siccità estrema indurito ed arido, non potevano di leggieri, nè presto, profondarsi, e con ciò aprire il libero passaggio al fuoco elettrico e somministrare alle fermentazioni il pabolo conveniente; alle quali d’altra parte il freddo del già venuto inverno si opponeva.

Pervenute le acque alla profondità richiesta, ed essendo stati gli ultimi giorni di gennaio ed i primi di febbraio sensibilmente tepidi; ecco le fermentazioni, impedite per tanti mesi, ingenerarsi e scoppiare ad un tempo, accompagnate da una gran scarica di fuoco elettrico eccitato ed accresciuto dal moto delle parti marziali e dallo stropicciamento cogli altri corpi adiacenti; convenendo ancor io che le materie marziali perse stesse non eccitino elettricismo.

Ecco, dunque, due principali cagioni del nostro terremoto: un copiosissimo torrente di fuoco elettrico ed una esplosione terribile ed immensa delle materie fermentanti. Dico principali cagioni; perché non oso niegare che altre ci abbian potuto ancor esse cooperare: come i fuochi vulcanici e più altro. Ma che nel nostro terremoto le più efficaci sieno state le sopradette, a me pare innegabile, posto che per esse si spiegano con somma facilità, anzi da quelle spontaneamente discendono i fenomeni sovraesposti; nè possono tutti spiegarsi, o discendere, da altra cagione.

E di vero, quelle nubi strette, brunite ed immobili, le quali prima della scossa vedevansi poco dal suolo discosto, e seguita quella, immantinenti dissipavansi, non presentavano esse uno dei consueti fenomeni dell’elettricismo? Indicavano certamente, prima della scossa essere elettrizzate negativamente, e star ivi immobili come attratte dal suolo e dai corpi elettrizzati positivamente; e dopo quella, saturate dal fuoco elettrico che loro mancava, dissiparsi per forza repulsiva, che all’attrattiva succede tosto che nei corpi la massa del fuoco si mette in equilibrio e che i medesimi divengono similmente eletrizzati; e ciò per la nota legge inalterabile dell’elettricità.

Resistendo l’aria alla diffusione della materia elettrica, dovea, come ognun vede, ricevere delle violenti impressioni, allorché il suolo ed i corpi terrestri della soverchia elettricità in essi raccolta si scaricavano; quella impressione, che probabilmente consiste in uno scuotimento dei vari suoi strati, secondo che la scarica successiva si propagava, e la elettricità medesima, da uno strato all’altro dell’aria (il che sempre fassi violentemente); formava quella romba, che precedeva ed accompagnava le scosse.

Ragunandosi la materia elettrica nei corpi terrestri e cercando di diffondersi per ogni dove, se incontrava dei corpi che si opponevano alla sua libera diffusione, dovea di necessità far violenza e squarciare e rompere l’ostacolo. Così per esempio, nel passare a traverso i muri, se incontrava delle fenditure piene d’aria, o delle pietre che contenevano parti eterogenee ed isolanti, e volendo pure a traverso così di quella come di queste passare, dovea squarciarle e romperle; lo che non potea farsi senza quei crepiti e scoppi violenti, nè senza ridurre quelle pietre ed altri corpi contigui in minutissime scaglie, come in vari luoghi avvenne. In oltre il vetro, che tanto vale a trattenere la elettricità, in tanta dose dovea pur darne qualche segno.

Finalmente, scorrendo il fuoco elettrico dentro degli alberi e degli animali, produr dovea degli scuotimenti strani, e quella vampa e quel calore e quelle vertigini e quegli sconvolgimenti ed abborrimenti di stomaco, che a chi fa degli esperimenti elettrici tuttodì succedono appunto, come i fatti il dimostrano.

Che più? […] il vento, che a tirar cominciava dopo il terremoto, era effetto del fuoco elettrico, che comunicandosi all’aria, la cominciava a rarefare, per la forza ripulsiva indicata pocanzi. Ma non sì tosto le particelle vaporose, che erano nell’aria, venivano, qualunque ne fosse la cagione, a mancare del fuoco elettrico che le teneva rarefatte e disgiunte; succedendo alla repulsione la vicendevole attrazione della medesima, si convertivano in pioggia, neve, o gragnuola, secondo che in minore, o maggior grado di freddo s’imbattevano, passando per i vari strati dell’aria. E finalmente quelle scintille, che immediatamente dopo molte scosse vidersi nelle punte dei ferri, e che forse nelle altre non mancarono, ma o perché le scosse seguivan di giorno, o per poca accortezza, o per altro, non furono notate; non indicavano esse, seguita la scossa, esser divenuta l’aria elettrizzata per eccesso? […]

Il perché poi le prime scosse sieno state più gagliarde nella Piana, ove parve avere avuto loro centro di esplosione, ed ivi abbiano fatto le maggiori rovine, non è così facile il determinarlo.

Molte circostanze e cagioni nascoste han potuto in ciò avere parte. Maggior cumolo di elettrico fuoco, maggior quantità dì materie marziali ivi raccolta; e certamente la maggior facilità che ebbero le acque di penetrare nel terreno argilloso e discontinuo, ed anco la maggior copia di quelle, attesa la posizione del paese; e più altri incidenti potevano influire ad essere quella parte la prima vittima dell’orribil flagello.

Ecco, dunque, come posto l’elettricismo per una delle principali cagioni del nostro terremoto, non solo si spiegano facilmente tutti i fenomeni avvenuti; ma è facile ancora vedere come, posto quello, non potevano non avvenire. Al contrario, escluso quello, io non veggo come potevano aver luogo. Imperocché, qualunque altra causa si voglia ammettere, o di vulcani impediti, o di aria rinchiusa e rarefatta sotterra, o di vapori acquei strabbocchevolmente dilatati in virtù del calore di qualche altro vulcano, o di che so io; nello scoppiare, si svelle e scuote la terra all’intorno, ed i corpi che sono fuori del centro di esplosione altro accidente soffrir non possono che un movimento comune col suolo cui sono infissi ed attaccati; non altrimenti che avviene ai corpi, che trovandosi dentro una nave spinta dal vento. Or, quel contorcimento e divincolamento dei rami degli alberi spesso contrari alla direzione del moto del suolo; quel sentirsi i viventi come afferrati e stretti a traverso; quella vampa, quelle pietre ridotte in polvere, quei crepiti, e quegli sbalzi che soffrirono molti corpi nell’atto della scossa, riconoscer debbono di necessità una cagione immediata, che agisca in essi, e gli strani accidenti vi produce.

Rimane, dunque, con quell’evidenza che è alle cose naturali richiesta e che a noi è stata conceduta, provato che le principali cagioni del nostro terremoto furono: lo elettricismo, il quale accumulato in gran copia nelle visceri della terra e corpi terrestri, scaricossi impetuosamente e rapidamente nell’atmosfera; e le splosioni delle fermentazioni, le quali operarono o per sè, o come eccitatrici del fuoco elettrico; a cagione del movimento che indussero nei corpi terrestri, o contigui, o frammischiati colle materie sulfuree e marziali.

La quale ipotesi non può essere smentita da pochi fatti, che alcuni dicono non essersi osservati, e che pur dovevano, se vera fosse sta la cagione esposta; come non lo sarebbe se alcuni fenomeni non si potessero per quella spiegare. Giacche, quando un sistema è provato bene, e con ragioni dirette, la mancanza di alcuni fatti, o sì bene il non saperli secondo quello spiegare, non rovescia il sistema medesimo; ed altro non prova che l’inavvenenza, o la mancanza degli esperimenti e delle osservazioni, o la natural debolezza ed insufficienza dell’umano intendimento; il quale non vede mai le cose nella pienezza ed estensione dell’esser loro.

Che se la nostra ipotesi di altra prova avesse mestieri, eccola nello scorso anno e nel corrente. Nell ‘està di quello, regnò ancora una siccità grande, benché non tanto e così lunga come la prima si fu. Vi furono le acque alla fine dell’autunno. Ma nello intrar dell’inverno, cadde copiosissima neve, e straordinaria. E venuti i sette di febbraio, precedenti quelle nuvoli immobili, e quel sole pallido, e quell’aria fosca, pur si ebbero i terremoti; non così gagliardi, ma però tali che non avrebbero mancato di crollare ed abbattere degli edifizi alti e vecchi, se nella Piana o altro luogo poco consistente della Provincia ne fossero dal primiero flagello scampati. E pure in tutto quel tempo i vulcani del nostro regno sempre liberamente eruttarono; né le acque furono in così gran copia, da poter profondere e penetrare nelle visceri di essi e formare quei vapori.

Tra le cagioni poi, perché in questo tempo il terremoto non è stato così terribile come nell’ 83, una si è, che le acque nella fine di autunno non furono così copiose; ed in cambio di esse, nei principi dello inverno e per tutto gennaio del 1788, vi fu copiosissima neve, e tale che i nostri vecchi, appena che una simile se ne ricordano, così per abbondanza e durata, come per essere stata universale in tutta la Provincia e Regno. Or, nell’esperienza costa, che la neve può a dovizia caricarsi e contenere il fuoco elettrico; quindi è facile il capire come essa, stando lungamente sopra la superficie del suolo e quello col suo umore profondendo, viene a succhiare il fuoco elettrico sovrabbondante della terra; e tenendo altresì l’aria adiacente umida, a questa dolcemente e senza strepito può comunicarlo a segno, che nel dileguarsi già la terra si trovi sgravata o in tutto o in parte di quel fuoco; da non poter perciò produrre col rimasto quei terribili effetti, che senza l’intervento di così benefica meteora della neve altre volte produsse.

Ma come! dirà taluno: se l’aria fu in quella stagione elettrizzata con difetto e la terra con eccesso, onde si generarono quei fulmini, che nell’autunno accompagnarono le dirottissime pioggie? […]

Si noti, in primo luogo, che i fulmini, non cominciarono ad essere frequenti che nelle piove cadute dopo il mese di novembre, tempo in cui già le acque aveano già penetrato la prima corteccia, per così dire, del suolo e scaricato perciò di quel fuoco sovrabbondante che conteneva; anche con qualche fragore e con terremoti, come avvenne il dì 8 dicembre. Ed oltre a ciò, ancor che l’atmosfera, cioè un caos come ella è di tante materie eterogenee, sia elettrizzata negativamente; possono benissimo le di lei parti essere una rispetto all’altra, per la loro indole diversa, diversamente elettrizzate, e dar luogo a fulmini e ad altre meteore da cosiffatto disquilibrio derivanti.

E sì par bene di notare, per conferma di quanto si è detto, come dopo i terremoti furono frequentissimi le aurore boreali; avendone io osservate, dentro quel tempo, sei luminosissime, oltre a moltissime più deboli che non curai di notare. Le quali secondo la moderna fisica riconoscono la moderna origine dall’elettricismo, qualora in copia sovrabbondante trovasi accumulato nell’atmosfera. Il che benissimo si confà colla nostra ipotesi: perché, consistendo principalmente il nostro tremuoto in una copiosissima scarica di fuoco elettrico dal suolo all’atmosfera, questa, dopo il tremuoto, divenne elettrica per eccesso; e così diè luogo a quelle meteore, che da sovrabbondante copia di fuoco elettrico vengono formate.

Nell’aprile di quell’anno, e se mal non mi appongo nella sera dei cinque, un bel fenomeno comparve. Cinque parelii tutti ad un tempo, furono posti a forma di triangolo, indi a poco chiusero uno spazio di figura informe; e sul fine formarono una retta. Non disparvero tutti ad un tratto, ma prima i due estremi. il loro colore fu sempre vivissimo e bello oltre modo. La loro durata fu di otto o dieci minuti. A questa bell’immagine di replicati soli, successe nel mese di giugno la tetra e fiera delle tenebre. Cominciando il caldo dell’està a farsi forte sentire, tutto ad un tratto fummo da una densa e folta caligine ingombrati; la quale durò per quattro giorni, di color pallidetto, e che sentiva di zolfo; e proveniva dalla parte di libeccio, che come è stato detto fu il vento dominante e dalla cui regione veniva il principal moto delle scosse. Di questa caligine, la quale si diffuse per tutta Italia, qual fosse stata la cagione, vari varie opinioni portarono.

Tra’ quali il dotto P. Giachier la credette una meteora periodica; ed altri, non so con qual fondamento, effetto di qualche cometa invisibile a cagion dei gran vapori che gittò sulla terra. Ma ella fu piuttosto originata da ciò: che essendo l’azione del sole fervente, la terra, essicandosi, esalò grande quantità di vapori, singolarmente dalle crepature ed immense voragini, che formate vi avea il terremoto; e ciò lo confermano il color gialliccio e l’odor di zolfo, che indicavano provenire da materie sotterranee e fermentanti.

Pria di por fine a questa parte, scorriamo rapidamente colla memoria i mali fisici, che così terribil fenomeno nella nostra infelice regione produsse.

Il massimo fra tutti fu, certamente, di aver morti più di quarantamila uomini, dei quali buona parte perirono in quell’istante, dalle rovine degli edifizi infranti e schiacciati; alcuni furono dalle voragini, che aprironsi nel suolo, inghiottiti; altri, sepolti illesi nei vuoti che le rovine stesse formarono, furono a maggior sciagura serbati, cioè di morire o bruciati lentamente dal fuoco, o divorati dalla fame, dopo il disperato dolore di veder prima morire innanzi di sé i dolci e cari figliuoli e le dilette consorti; ed altri scampati dalle rovine, acciocché più noia fosse il morire, indi a poco soggiacquero ai disagi ed alle febbri putride; giacché comunque provvide fossero state le cure del Governo nel purgar l’aria delle infezioni, ciò non potette farsi così presto, che ella non venisse in parte corrotta dalle esalazioni dei corpi morti, e da tanti commestibili e mobili, per lo grande umido e per lo contatto con quelli, imputriditi e corrotti.

I ricchi ed agiati furono in così fatte sciagure i più malmenati. Perché, oltre di avere veduti i loro palazzi adeguati al suolo e sé dei preziosi arredi e delle loro ricchezze spogliati, e delle altre speranze in un punto delusi; e il loro fasto e superbia abbattuti e la loro fortuna eguale a quella del povero, che poco avanti con fiero orgoglio disprezzato aveano ed oppresso; molti di essi furono nella dura condizione ridotti di ricorrere ai pastori in campagna, così per aver ricovero nei loro tuguri, come per ottenere qualche cencio onde le nude carni coprire; ed ai poveri e dozzinali implorando il loro aiuto, perché alle loro bisogne accorressero, singolarmente di formar capanne, onde ripararsi dalle intemperie cui non erano avvezzi; i quali, rendendo lor pane per focaccia, non senza essere molto pregati, nè senza grande usura, l’opera loro prestavano.

Esisteva in Provincia, ancora invenduta gran copia di olio, il quale è uno dei generi più ricchi ed abbondanti del nostro commercio; e di vino, del cui reddito vivono molte famiglie. E questi tutti perirono.

Grande si fu ancora, non però tanta, la perdita delle biade, e di altri viveri; dei quali, come non fluidi e non così soggetti a subito perire, se ne recuperò qualche parte; benché non tale e tanta quanta alla semina del granone e ad altre sementi, che qui soglionsi fare alla primavera, si richiedeva.

Mancavano in quel tempo alcune industrie, che formano altra parte della ricchezza nazionale; e molte arti furono sospese per mancanza di agj e di luogo. Tale si fu l’arte della seta: rovinate le case, ed infranti e distrutti gli ordegni delle arti: nè i bachi nella copia di prima potettero schiudersi, educarsi e nutrirsi; nè le seti esistenti lavorarsi. Onde ne venne la miseria di tante famiglie, che col lavoro dì quelle vivevano.

A codesti mali si vogliono aggiungere il numero prodigioso dei laghi, che per tutta Calabria formaronsi dalle acque arrestate da masse immense di pietre rotolate e da montagne scisse e rovesciate sopra il letto dei fiumi e dei torrenti, che ne deviarono il corso e parte ne incarcerarono; donde sorsero quei laghi che ascendono al numero di […]. Tra’ quali molti di estensione e profondità ingente. (Quello di S. Cristina era profondo palmi 230).

Il quale accidente, a chi è inteso della fisica struttura della nostra Provincia, non sembrerà così strano come è parso ad alcuno. Imperocchè la Calabria, singolarmente in quella parte ove i laghi formaronsi, abbonda di valli e fiumi cui sovrastano immense e ripide balze; le quali, a ragione delle acque, o sono affatto denudate della loro base, o sì l’hanno piccola, che paiono pendenti; e solo per la forza di coesione, eguale o maggiore di quella di gravità, al resto del monte unite si mantengono. La quale coesione, come vien vinta da altra forza (come si fu quella del tremuoto) di necessità quelle debbono giù nelle sottoposte cavità, per la loro gravità, precipitare; e questa ingombrare e chiudere.

Le acque in così gran copia stagnanti, putrefacendosi, infettar dovettero l’aria circonvicina, e con ciò grave danno recare alla salute dei viventi. Il quale danno, maggiore dovette essere in sul principio della corruzione; cioè quando non ancora le erbe e le piante palustri ivi si erano ingenerate a depurare quell’aria. Oltre a ciò, occupando le paludi gran spazio dei più fecondi terreni, come quelli che erano dalle circonvicine acque inaffiati; recarono, anche per questo verso, grave danno alla pubblica economia.

Lo stato dell’agricoltura, in generale, non pare che abbia sofferta alterazione sensibile nè in bene, nè in male; se non che le ricolte d’ogni genere furono un poco primaticcie; ed invero, essendo l’aria elettrica per difetto, i vegetabili erano carichi sì di fuoco elettrico, ma di quello che loro veniva comunicato dalla terra con cui facevan pane; il quale fuoco non portava seco tutte le altre materie benefiche ed influenti alla prosperosa loro vegetazione, che avrebbe portato il fuoco elettrico dell’atmosfera, se da questa lo avessero potuto succhiare. Onde, oltre di un accrescimento di traspirazione, altro effetto non si potè in quelli osservare.

Avendo fin qui, dilettissimo Torquato, dei fisici accidenti fatta parola, ed avendo quella parte, secondo le mie deboli forze, fornito; rimarrebbe che io vi esponessi le morali rivoluzioni e politiche, che, come è il fato delle umane cose, alla fisica crisi succedettero. Il che, però, avviso di non poter fare senza ricorre dalle mie oneste fatiche amarissimo frutto; volendo, com’è pur debito d’ognuno, unicamente servire alla sacrosanta verità. Imperocché, se nello sporre le azioni della natura qualche negligenza venga usata, o pur si giunga alla stoltezza di accusarla o come ingiusta o come adirata, o con altra imputazione a calunniarla, essa l’unto non si commuove; che anzi con dolce sorriso la umana ignoranza ed i folli trasporti largamente perdona. Ma non così avviene nel descrivere le opere degli uomini: perché, o quelle sono laudevoli, e nel commendarle, non mai contenti della giusta misura, vorrebbero che nulla si omettesse di ciò che a renderle più onorate può condurre; o sono vituperose, e salvo se non fossero di quelle enormissime da poter con eccesso di malvagità perpetuare la loro fama, amerebbero che sotto vari colori venissero inorpellate e sminuite, o in profondo silenzio perpetuamente sepolte; e del contrario oltremodo si adirano. Pur questi ostacoli punto non mi arrestano, che anzi animerebbero il mio coraggio. Ma per altre ragioni io debbo differire questa parte, la quale e di più tempo e di maggior consiglio ha mestieri. E darò termine al mio ragionamento, aggiungendo alcune riflessioni, che tengono più alla Fisica che alla Politica.

Dei mali prodotti del terremoto, gravissimo si è la spopolazione della Provincia. Dunque, a questa sciagura debbono essere singolarmente rivolte le mire del Governo.

La Calabria era già spopolata pria dell’orribil flagello. Da Cotrone fino a Squillace, ora non si veggono che le nude, e deserte campagne e solitarie, abitate nel solo inverno da pastori della Sila. L’aria che vi si respira è micidiale, a cagione delle acque che vi si ristagnano e s’imputridiscono assieme coi vegetabili, che hanno seco condotto dalle montagne.

E pure quei luoghi erano un tempo saluberrimi e popolatissimi. Il solo Cotrone contava più individui vigorosi e forti che non ne ha oggi l’intera Provincia. Il rimanente, come che sparso di un prodigioso numero di terre e castelli, questi per lo più sono poveri di abitatori, e meschini.

Quindi, tanti boschi e tante macchie; o contigui, o che ingombrano le abitazioni; i quali occupano i più feraci terreni […].

Vincenzo De Filippis calabrese , matematico, filosofo, letterato, ministro, negli anni che seguirono alla sua morte, non ebbe la notorietà e la fama che si addiceva ad un uomo della sua levatura e portata.

a settembre 14, 2006