Angelo Savelli
nativo di Pizzo, vissuto a New York
Carlo Primerano
(articolo tratto dal volume distribuito in occasione del Convegno per il Decennale della morte, organizzato dall’Associazione Istituto di Studi Ricerche ed iniziative Benedetto Musolino)
Angelo Savelli nacque a Pizzo il 30 ottobre 1911 da Giorgio e da Maria Barone. Secondo di cinque figli gli venne imposto il nome del nonno materno Angelo Barone, rinomato artista locale, che agli inizi del Novecento aveva dedicato la sua vita alla Chiesetta di Piedigrotta, ampliandone la grotta centrale, creandone altre, ed abbellendo il tutto con statue scolpite nel tufo.
Il Nostro aveva quattro anni quando il nonno mori nel 1915. E mentre ad avviarlo all’arte del disegno provvide lo zio Alfonso Barone di cui ricordiamo tra l’altro gli affreschi della navata centrale e dell’altare maggiore della Chiesa di Piedigrotta, il padre, farmacista, ne assecondava l’inclinazione. Un ambiente quindi favorevole, un dono naturale che andava riservato, una passione artistica che doveva essere coltivata e alimentata. Fu così che il giovane Angelo, fatti i primi studi al Filangieri di Vibo Valentia, si trasferì a Roma per frequentarvi il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti. Furono otto anni (1930 – 1937) di studio, di applicazione intensa, che si conclusero con il diploma, i primi premi ed i primi affreschi su commissione (Cappella della Villa Boimond a Sora). Nel 1938 partì per il servizio militare quindi, nel 1940, tornò a Roma e si stabilì alla via Margutta, 49. La sua prima “personale” è del 1941 alla galleria “Roma”; altre ne seguiranno e sarà un successo sempre crescente. In questo periodo si legò in amicizia con Guzzi, Fazzini, Jarema, Severini, Montanarini, con i quali fondò nel 1945 l’Alt Club di Roma.
Savelli, però, è il pittore della ricerca e della sperimentazione continua; comincia a sentire la “Scuola Romana” limitativa dell’espressione artistica; il futurismo lo affascina, ma è il viaggio a Parigi del 1948 che lo segnerà profondamente e determinerà una svolta nel modo di intendere la pittura: non più paesaggi e figure ma linee nere, pesanti e dense, linee che non servono per originare “forme”, ma sono esse stesse “forma”.
Nel 1953 dopo aver sposato la giornalista Elisabeth Fisher si trasferì a New York. Qui conobbe Robert Motherwell, Ad Reinardt, Barnett Newman, Philip Pavia e Jack Tworkov. Qui soprattutto con l’approdo al bianco monocromatico, raggiunse la sua maturità.
I colori non servono, perché la purezza formale e l’essenzialità si raggiungono con un colore solo, il bianco assoluto.

ANGELO SAVELLI

Savelli diventa il pittore del bianco. Il bianco, l’approdo maturo di un percorso artistico iniziato a Pizzo e conclusosi a New York. Il bianco, espressione dell’io più remoto, il concretizzarsi su una tela senza cornice appesa ad un muro dei sentimenti più profondi, la sensazione visiva che sembra annullare i colori e che invece li contiene tutti. Questo il bianco di Angelo Savelli, incontaminato, candido, interiore. E la storia di Pizzo si arricchisce di una gloria che non è “la gloria di un giorno” teatralmente rievocata come fredda offerta turistica, ma quella eterna di un genio che proietta la nostra città nella storia dell’arte. Savelli pittore del bianco. Ed è così che verrà ricordato dalla stampa italiana (L’Unità, la Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, La Gazzetta del Sud, II Giornale di Brescia) quando nella notte del 27 aprile del 1995, colpito da broncopolmonite fulminante, morì nel Castello di Boldeniga di Dello (BS) dove si era recato ospite degli Argenterio-Ghidini, suoi amici carissimi.
La morte che lo ha colto improvvisa non gli ha consentito di presiedere a due mostre che in quell’anno saranno a lui dedicate, una alla XLVI Esposizione Internazionale d’Arte presso la Biennale di Venezia, l’altra al Museo “Pecci” di Prato.
Oggi le spoglie mortali di Angelo Savelli riposano nel cimitero di Pizzo dove erano state traslate pochi giorni dopo la sua morte.
Ai critici il compito di spiegarci l’arte di Savelli a noi quello di rendergli doveroso omaggio.
Giorgio Murmura, che fu suo amico oltre che estimatore entusiasta della sua opera, così parla di lui. “Incontravo Angelo Savelli tutte le volte che tornava a

Nativo di Pizzo, vissuto a New York

Pizzo. Quell’uomo mi affascinava. Non saprei dire perché. Una cosa ricordo, gli guardavo sempre le mani. Forse volevo carpire in quelle mani il segreto della sua arte. Impressionante come le muoveva. In quelle mani che gesticolavano ci vedevo il pennello, la tela, la tavolozza. Lui parlava, parlava, ma io non sentivo le sue parole; io quelle parole le vedevo, le leggevo nelle sue mani. La calma e la semplicità di quei gesti mi facevano vivere i momenti della creazione del “Flusso Vitale” o del “Bianco su bianco”. Ogni gesto una pennellata ed alla fine di una lunga chiacchierata, l’opera mi appariva in tutta la sua bellezza.
“Qualcuno dice che ho scoperto il bianco. Non è vero. È il bianco che mi è venuto incontro. Proprio così. Io ho soltanto prestato le mie mani perché quel bianco potesse materializzarsi e sistemarsi sulle tele”.
Incontro la dott.ssa Cettina Capocasale a casa sua, di domenica, verso le 10,30 del mattino. E mentre sorseggio il caffè che mi ha gentilmente offerto le chiedo cosa ricorda di suo zio Angelo.
Non ha bisogno di molto tempo per pensarci. “Un uomo buono, lampante, trasparente, senza preconcetti e prevenzioni, e forte, si, molto forte. Curava poco i suoi affari e non ha mai ceduto alle esigenze dei galleristi se queste comportavano compromessi”. E mi racconta di quando a Parma si è sentito male, del suo ricovero in un ospedale di Brescia, di quando lo vide per l’ultima volta, della telefonata che le comunicava la morte. Qua la sua voce si intristisce ed il tono diventa amaro. “Ricordo che ai funerali era presente una delegazione del Comune di Taverna guidata dal sindaco e due vigili in alta uniforme che portavano il gonfalone di quella città, mentre Pizzo…”.


ANGELO SAVELLI

Si ferma. Non vuole accusare nessuno Cettina, ma l’amarezza della mancata presenza delle autorità locali c’è, si sente, si avverte. E non potrebbe essere diversamente. Poi torna indietro nel tempo ai primi anni 80 quando a New York il Nostro subì un’aggressione che lo lasciò tramortito a terra per oltre due ore. Gli rubarono tutto. “Vedi, quando mio zio Angelo ricordava quell’episodio sottolineava che se un essere umano era arrivato a tanto voleva dire che ne aveva proprio bisogno altrimenti non si sarebbe trasformato in ladro. Un inguaribile ottimista”. Un Angelo, dico io, di nome e di fatto. La conversazione a questo punto entra nel familiare, nei rapporti con i suoi, nell’attaccamento alla madre. “Ero una bambina quando mia nonna si ammalò. Mio zio venne dall’America e ricordo che stette quattro giorni interi nella stanza con sua madre per godersi, così diceva lui, gli ultimi attimi terreni di chi gli aveva dato la vita e, dopo la morte, perché non ci si dimenticasse di lei teneva, a tavola, sempre un posto vuoto”. Anche questo era Angelo Savelli. Grazie Cettina.
“Questo è il balcone da dove, per come spesso ricordava nelle sue interviste, lo zio Angelo, bambino, vide per la prima volta il colore blu del mare”. A parlare è la nipote, sig.ra Maria Capocasale, Marisa per gli amici: sono infatti nella casa natale di Angelo Savelli, attualmente abitata dalla signora. Rientriamo in casa, e la prima cosa che fa è prendere un album di fotografie. Le guardo una per una, Savelli con la moglie il giorno del suo matrimonio, impegnato in esercizi joga, al mare, con gli amici, con i nipoti.
“Gli piacevano i miei occhi neri, diceva che me li truccavo con la matita. Quando telefonava era necessario sedersi, ti teneva attaccato alla cornetta per ore”. Sono ricordi che si accavallano e che non seguono un filo cronologico. Mi mostra un disegno “Per rivalutare il diavolo”; c’è una dedica “A Marisa Franco Maria (la vispa) e Giorgia ancora tenera con altrettanto tenero affetto”.

“Spesso diceva che mia figlia Giorgia doveva farsi chiamare Geòrgia come lo Stato americano di cui una volta le portò un libro in regalo”. Si ferma un poco, poi “dimenticavo le tantissime cartoline che spediva e le lettere. A proposito, spesso nelle lettere c’era qualche dollaro”. Il rito dell’emigrante che scrivendo ai parenti inserisce nella busta un dollaro o la classica sigaretta Camel si ripete anche con Angelo Savelli. Ma Savelli si sentiva davvero un emigrante?


Non conosco la signora Maria Savelli e quando, dopo aver fissato un appuntamento, la incontro, mi rendo conto che la conversazione stenta a decollare. Mi sento un pò imbarazzato. E lei a rompere il ghiaccio; d’altra parte conosce il motivo della mia visita. “Mio zio Angelo! Intanto l’ho visto pochissime volte, come tutti, e se qualcuno afferma il contrario, mente”. Debbo crederle, in fondo Angelo Savelli viveva a New York. Prosegue parlandomi del testamento, del lascito al Comune di Pizzo, di Bertelli – Prada, delle attenzioni e dell’affetto verso i suoi figli, della fitta corrispondenza che teneva con suo padre (a questo proposito c’è l’impegno per un successivo ulteriore approfondimento). “Dovessi definire mio zio direi che era un’anima ingenua che viveva nella sua nuvoletta. Un uomo fuori dal mondo, disinteressato, per niente attento al risvolto commerciale delle sue opere”. Il mio iniziale imbarazzo è ormai scomparso. Lei se ne accorge, quindi si alza, si avvicina ad un cassetto, lo apre e tira fuori una bambolina. “Ecco – mi fa – questa bambolina, ormai vecchia, senza capelli e senza niente addosso, me la spedì dall’America mio zio Angelo quando avevo cinque o sei anni. Aveva un vestitino rosa. Ricordo bene il colore, perché un’altra identica ma con il vestitino giallo la mandò a mia cugina Marisa. A Cettina invece un bambolotto”. Non aggiunge altro la signora Maria ma la gioia di quel ricordo, la felicità provata quando, a cinque anni, accarezzò per la prima volta i capelli di quella bambola arrivata dall’America, la si legge ancora tutta nei suoi occhi.