L’ebanista Francesco Papandrea di Monteleone testimone dello sbarco di Murat a Pizzo

Pubblicato da Leonardo Calzona in Storia · 5/7/2016 20:02:00
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Testimonianza sullo sbarco di Murat a Pizzo (5/7/2016)
MEMORIE STORICHE
del bimensile “MONTELEONE” Marzo – Aprile 2014 Anno X n. 79 di Vibo Valentia
L’EBANISTA FRANCESCO PAPANDREA DI MONTELEONE TESTIMONE DELLO SBARCO DI MURAT A PIZZO
a cura dell’Avvocato Leonardo Calzona
Con la caduta di Napoleone furono abbattuti anche gli stati satelliti che aveva creato. Anche il Regno di Napoli, spodestato al cognato Gioacchino Murat, fu restituito al Borbone.
Il Murat, bravo guerriero e abile generale di Napoleone, si illudeva di godere ancora del consenso delle popolazioni del Regno anche perché fra le altre varie riforme, in parte anche ispirate alle idee della rivoluzione francese, aveva abolito i vari privilegi della nobiltà e del clero, favorendo, quindi, il popolo che veniva tiranneggiato e non godeva di alcuna tutela.
Si Illuse di poter riconquistare il Regno con l’aiuto del popolo da lui così beneficiato.
Sbarcava a Pizzo per cercare di poter da lì partire per riconquistare Napoli. Ma la cittadina gli fu contraria, specie l’ingrato popolaccio che lo dileggiò e insultò, e subito fu catturato e fucilato per ordine del Borbone che così eliminava quel pericoloso rivale.
Alla cattura assistette anche un ebanista di Monteleone, tale Francesco Papandrea che, abile artigiano, si era trasferito a Roma, aprendo una bottega.
Ed ecco una rivista “Il Buonarroti” (serie II, voi IV – quaderno IV anno 1869) traccia una breve biografia di questo artigiano riportando uno stralcio delle sue memorie che descrive la cattura dello sfortunato Murat.
Francesco Papandrea
“Un serto di fiori sulla croce che veglia al sepolcro di un illustre vecchio operaio, Francesco Papandrea: e i suoi occhi chiusi nel sonno dei “giusti sorrideranno un istante bagnati dalle lagrime della riconoscenza.”
E tu non avrai discaro, o nostro Buonarroti, se una di queste pagine a te intitolata ricorderà di lui.
Francesco Papandrea fu un nobile operaio, che toccava ormai gli ottantacinque anni di età, e viveva ancora del frutto giornaliero de’ suoi sudori, nell’uso della pialla, e del martello.
Nato in Monteleone di Calabria Ulteriore II nel 1783, aveva colà presso il suo padre esercitato la professione di ebanista. Dopo il 1820 venuto in Roma, vi aprì una modesta bottega, ove non tardò a farsi conoscere per quell’uomo abile ed intelligente che era. Per commissione di famiglie principesche, e segnatamente di D. Francesco Borghese, eseguì varii lavori per armadi, scrigni, scrivanie, pregevolissime per intagli, meccanismi, e congegni di parimenti segreti.
Intero di costumi, scelse a degna sua compagna un’ottima donna romana, Anna Garbani. Di quattro figli cresciuti all’amore, ed alle speranze della famiglia ne vide sparir tre, fiori di giovinotti, restandogliene in vita uno solo, ma cagionevole di salute, e bisognoso di aiuto. Il Papandrea per questa doppia sventura, che gli spezzava il cuore, pianse amaramente ogni volta, ma il dolore suo accrescendo quello della inconsolabile consorte e madre, fé cuore da eroe; a questa strinse la mano, e la guardò ad occhi asciutti. Lavoratore infaticabile, tirò innanzi l’arduo cammino della vita, inoltrandosi nell’età senile, e sempre riconoscendo nella possibilità del lavoro una benedizione del cielo. Sembra incredibile, come questo vecchio ottuagenario si levasse ogni mattina, e specialmente nel freddo inverno, assai prima del far del giorno, per mettersi in cammino da S. Carlo al Corso, nelle cui vicinanze abitava, e recarsi a Porta Cavalleggeri nello stabilimento meccanico dei sigg. fratelli Marzocchi, presso i quali era occupato come modellista fino dal 1839, e che dovevano a lui l’iniziamento primo del loro opificio. E questo tragitto, sì nell’andata e sì nel ritorno, costava più di un ora al suo passo lento e misurato.
Il buon operaio istruito e colto nella storia, era servito a meraviglia da una felicissima memoria di tutto quanto aveva letto in sua vita. E la sera in casa, dopo le dieci ore di lavoro giornaliero, soleva togliere al sonno una parte di tempo per la lettura, cosicché sappiamo che perfino in questi ultimi anni percorse la Storia universale del Cantù, la Storia universale della Chiesa Cattolica, gli Annali d’Italia del Muratori, la Sacra Bibbia del Martini, ed altri libri. Ma la sua lettura prediletta furono sempre le traduzioni italiane dei filosofi greci, e Plutarco sopra di ogni altro.
Fra le molte avventure della vita, ch’ei di sé ci narrava, e nelle quali spiccava sempre il suo carattere maschio ed onesto, vogliamo citar questa, che è di una certa curiosità nella Storia: « Io mi trovavo là, narrava egli, quando Gioacchino Murat co’ suoi ventotto fidi fece il funesto sbarco nelle vicinanze di Pizzo, ove fu poi fucilato. Una donna, cui era morto in battaglia un figlio soldato di leva nelle file del Murat stesso, si avventò come una jena arrabbiata sulla del malcapitato ex -re, appena lo ebbe riconosciuto; ed insultandolo colle parole, e con le mani, gli fece tali sfregi sul viso, che ne spruzzò sangue, Io, diceva il vecchio ma risoluto operaio Calabrese, a quell’atto brutale, usato verso un prode, che la morte aveva rispettato in tante battaglie, e che se doveva perire, non lo dovea per le unghie di un’ossessaa, fremetti, gridai, e muovevo a sostenerlo…»
Otto mesi prima della sua morte il povero Papandrea ebbe a provare l’ultimo colpo di sventura, che gli fu micidiale, la perdita dell’amata sua consorte. E il giorno 11 ottobre 1868 ei la raggiunse, come dobbiamo sperare, in cielo, ove ringiovanito per sempre godrà ora il guiderdone della pietà, dell’onestà, e delle fatiche, che tanto lo nobilitarono in terra.
Oh se tutti gli operai fossero così !
Noi inchiniamoci alla tomba di questo, che ne fu esempio carissimo. G.L.”.