La fine di un ‘epoca e di una epopea!
 
di David Donato
 
Quando, nella tarda primavera del 1974, tre navi officina giapponesi, attrezzate per la lavorazio­ne e per l’inscatolamento del pescato, la Sesho Maru, la Chitre e la Puerto Caimito (queste ulti­me due battevano bandiera-ombra panamense!), tutte di 350 tonnellate, al comando del capitano Tooro Namisato, dopo aver mollato gli ormeggi nel lontanissimo porto di Sizuoka nell’arcipelago giapponese, si affacciarono nel Golfo di Sant’Eufemia Lamezia sulla scia dei tonni, da loro inseguiti da un capo all’altro del globo, po­nendo la loro base a Vibo Marina, ebbi la oppor­tunità di fare uno «scoop» giornalistico con un mio articolo su «II Tempo». Ma, fu, anche, l’atto ufficiale di morte della gloriosa tonnara di Pizzo! Quell’articolo fu ripreso da varie agenzie e spinse una troupe della televisione francese a venire sin qui per constatare che, davvero, i giapponesi erano arrivati in mezzo a noi, cioè nel Mediterraneo, in cui la Francia ha, insieme con altri popoli rivieraschi, molti interessi da tutela­re.
 
Gli intraprendenti figli del Sol Levante, grandi pescatori e conoscitori dei punti di pesca di tutto il mondo, non potevano tralasciare di imporre la loro presenza anche nelle nostre acque, le quali figurano da secoli fra quelle più ricche del grosso sgomberoide della famiglia dei predatori, quali il barracuda, il pescecane, l’alalunga, il pesce-spada, le palamidi e gli sgombri. Il tonno, come si sa, è pesce migratorio e,  a causa della sua mole e del suo peso, deve stare sempre in movimento: se resta fermo, va a fon­do!
Quello europeo, proveniente dall’Atlantico, se­gue la corrente calda del Golfo e, toccate le coste atlantiche spagnole, entra in primavera nel Me­diterraneo, puntando prima verso il Golfo Ligure, da cui scende verso sud, rasentando i litorali limpidi e sabbiosi dell’Italia Meridionale, da do­ve si spinge alle coste della Libia. Ma solo lungo i nostri litorali, poiché tra maggio-giugno è nel­l’epoca degli amori, depone le uova, proseguen­do la sua corsa sino al Mar Nero, da dove inizia il viaggio di ritorno nei mesi di settembre-otto­bre per ritornare in Atlantico. La cattura del tonno nel Golfo di Sant’Eufemia Lamezia, in special modo lungo il litorale di Pizzo, si perde nella notte dei tempi, poiché risale alle remotissime origini di questa Cittadina (l’antica Napitia), che si vuole fondata dai Foce-si, secondo Strabone. Infatti, in vecchie mappe di epoca romana, si vede il «Sinus Lametinus» brulicante di tonni ben disegnati, per cui vi è da supporre che essi, pescati fin da allora, sebbene con sistemi rudimentali, non deludevano i pe­scatori del tempo. L’abbondanza dei banchi, i quali si tenevano vicinissimi alla riva, consentiva la cattura di singole prede di notevole peso: tonni che toccavano i cinque quintali se ne pescava spesso anche ai nostri giorni con la vecchia ton­nara di Pizzo.
 
 
 
Notizie più vicine a noi ci confermano che le ton­nare a reti fisse esistevano, qui, sin dalla domi­nazione aragonese. Ben cinque di esse operava­no a Bivona, a Pizzo — direttamente al largo dello zoccolo rupestre su cui essa svetta civettuola — ad Anghione, a Mezzapraia e a Sant’Irene di Briatico. Ma, poiché quel sistema di cattura, protrattosi sin dopo i nostri anni sessanta, era stato introdotto nei nostri mari dagli Arabi, si può ritenere che, ancor prima della dominazione aragonese, le tonnare a reti fisse operassero nel mare di Pizzo.
La tonnara si calava in mare in aprile e si teneva in attività sino a giugno inoltrato con un impo­nente sistema di reti fisse e mobili, collegato a uno sbarramento che partiva da terra dallo sco­glio cosiddetto della «catena», perché una grossa catena vi veniva legata attorno per tenere ferma la lunga rete dello sbarramento, che si pro­tendeva a semicerchio sino a circa due miglia al largo, ove era posta la tonnara vera e propria. Guidava tutte le operazioni, assumendosene le responsabilità, un esperto marinaio anziano, chiamato nel nostro dialetto «arrasu», con molta evidenza storpiato dal termine arabo di «rais». Gli Arabi, infatti, così chiamano colui che svolge funzioni di comando. Bisognava calare le reti, la prima volta soltanto e quelle fisse, in una giornata senza vento e senza «rema», cioè una corrente marina, così chiamata in dialetto pizzitano, che scorre da sud-sud/est. E le campane della Cittadina suonavano a stormo quando ciò avveniva e altrettanto face­vano in occasione della prima mattanza della stagione! Il complesso sistema di reti della ton­nara era tenuto fermo da pesanti ancore, da grossi blocchi di pietra e legato con solide funi a loro volta legate, in affioramento, a grossi bloc­chi di sughero e a cilindrici galleggianti di metal­lo.
 
Le barche della tonnara avevano una loro speci­fica nomenclatura, a seconda dei compiti che dovevano assolvere: «caparrassu», la barca più grande di tutte, a cui si faceva accostare la rete sollevata per la mattanza; «sceri», cioè l’usciere la barca da cui venivano chiuse le porte attraver­so le quali i tonni finivano nella «camera della morte»; «colonnitu», la barca che aveva a bordo quattro marinai, sempre intenti a scrutare il fon­do dello specchio d’acqua in cui insisteva la trap­pola: spesso vi lanciavano olio di oliva per vedere meglio i tonni incappati nella rete, stabilendone, approssimativamente, anche il numero; «portanova», la barca che dava le buone novità, poiché era posta all’anticamera della tonnara e segnalava per prima quando i tonni, dopo lo sbarramento, erano entrati e si accingevano a passare nella «camera della morte»; «musciari» erano chiamate tutte le altre barche addette ai più svariati servizi, fra cui quello di trasportare a terra i tonni catturati. Caratteristica era, poi, la litania che i tonnarotti   cantavano ai tonni, improvvisando di volta in volta, per chiedere scusa della morte che doveva­no infliggere loro per necessità, cioè per la so­pravvivenza dei tonnarotti stessi, delle loro fa­miglie, della popolazione di Pizzo e del finanzia­tore della tonnara, tutti economicamente legati alle alterne, rischiose vicende della pesca. Ai tonnarotti, oltre alla paga giornaliera, spettava un premio in denaro per ogni tonno, pesce-spada, sgambirri e palamidi pescati. Essi avevano anche diritto a prelevare un pattuito numero di palamidi e di sgambirri e potevano disporre a loro piacimento di tutti i pesciluna, per mangiarli o venderli.
 
Sopra il corto pennone della barca chiamata «’u sceri» veniva alzata una bandiera diversa, a se­conda del pesce che la tonnara si accingeva a pe­scare: quella tricolore per i tonni; quella bianca per i pescispada; quella nera per palamidi e sgambirri. Ma qualche volta erano catturati an­che degli strani mostri che i marinai classificava­no, genericamente, col termine di «bestini», cioè bestiacce sconosciute.
Quando nel 1974 arrivarono i giapponesi, tutti capirono che l’epoca della tonnara tradizionale, la sua cultura, le sue straordinarie leggende, le sue tradizioni e il suo folklore erano finiti per sempre. Essi la soppiantavano con una flottiglia di pescherecci molto veloci, che operano con tonnare volanti, inventate dagli stessi marinai asiatici, la cui messa in mare richiede un esiguo,  ma qualificatissimo equipaggio, coadiuvato da mezzi modernissimi e assai sofisticati. Questi permettono ai tonnarotti dalla pelle gialla di cir­cuire i banchi di tonni con l’agile sistema in dota­zione, senza battute a vuoto. Tramontava così il fascino della vecchia tonnara, ormai antieconomica a causa dei pesanti costi di esercizio e poco produttiva, perché le catture si andavano facendo sempre più magre di anno in anno. L’inquinamento delle nostre coste (ma, soprattutto, la intollerabile e micidiale pesca a strascico lungo i litorali!) aveva prodotto un mutamento radicale nell’habitat, prima ideale e davvero unico per lariproduzione del tonno, il quale si faceva veere, qui, puntuale nell’epoca degli amori per deporre le uova e fecondarle nei nostri bassi, caldi e luminosi fondali, ricchi di una flora veramente eccezionale, assai adatta alla schiusadelle uova e allo sviluppo del novellarne con l’apporto del ricchissimo plancton e di altre sostanze organiche che riversavano nel Golfo di Sant’Eufemia Lamezia due grossi fiumi come l’Amato e l’Angitola, quest’ultimo, ora, imbrigliato da una improduttiva diga, che ci ha riportato le zanzare dopo che erano state debellate dalla bonifica degli anni 1928/32 e un elevato tasso di umidità che ha stravolto il no­stro clima, mitissimo prima. La vecchia tonnara era stata una vera ricchezza per secoli, perché quattro o cinquemila tonni a stagione erano sempre pescati.
 
 
A questi andavano aggiunte alcune decine di pe-scispada, alcune centinaia di migliaia di palami-di, di sgambirri e di calanne e, come un non trascurabile surplus, migliaia di pesciluna, chiamati «moli» in dialetto, da far marinare con aceto, aglio e mentuccia, dopo averne infarinata e fritta la carne bianchissima. Il tonno più grosso tra quelli catturati nella prima mattanza della stagione era offerto dai tonnarotti ai monaci del locale convento di San Francesco di Paola, patrono dei marinai. Inoltre il settimo del pescato dei giorni festivi spettava al Vescovo di Mileto per una particolare dispensa ottenuta dai tonnarotti, ai quali consentiva l’inosservanza della messa domenicale, atteso il particolare impegno da loro svolto sul mare dall’alba al tramonto in un periodo assai ristretto di giorni utili per la cattura del tonno. La tonnara sfamava le popolazioni calabresi, che uscivano stremate da durissimi inverni. Infatti, tutto un vasto entroterra fu, per secoli, rifornito di pescato fresco e di qualità pregiata, che permetteva provvidenziali provviste coi prodotti derivati dalla salagione delle carni, come il «tarantello», ovvero la ventresca del tonno, sa­lata come la «tonnina», cioè tutta l’altra carne del grosso pesce. Questa era messa prima in sala­moia e poscia, tagliata a pezzi, posta in una spe­cie di barile, chiamato «terzaiuolo». La parte più buona della «tonnina» veniva immessa in re­cipienti pieni di olio di oliva, dopo essere stata  bollita, dato che Pizzo, sino ad alcuni decenni dopo l’inizio di questo secolo, era priva delle at­tuali, moderne industrie conserviere, a condu­zione familiare per lo più. Esse di tonno fresco ne ottengono sempre più poco da lavorare, per­ché tutto il pescato finisce in paesi lontani, dai quali ci ritorna congelato e senza quelle peculia­rità di freschezza e di rapida lavorazione sul po­sto che ne fecero un prodotto di alta qualità e di gusto sopraffino per molti secoli, ora consegnato al ricordo di quanti fecero ancora in tempo a mangiarne e a rimpiangere di non poterlo fare mai più!
(da «Calabria Letteraria» n. 10,11,12 ott./die. 1984)