REPERTI SCRITTI DI AUTORI VARI
LEANDRO ALBERTI
… assai pescatori si trovano.
Camminando poi tre miglia dall’Angitola fra folti boschi di Mortella, e poi fra vigne, ove sono anche molte specie di fruttìferi alberi, e massimamente di Cedroni, di Naranci, e Limoni molto ordinatamente piantati, appare un piccolo braccio di terra eh ‘entra nella marina, sopra il quale vi è il piccolo castello di Lopizzo. Circa di questo lito, ciascun ‘anno nel mese di Maggio si piglia gran numero di pesci Tonni, e tanti se ne pigliano, che par cosa meravigliosa. Et quivi si salano, e poi sono portati così salati in qua, e in là per l’Italia. Onde mi dicevano gli habitatori del paese, che alcuna volta ne pigliavano al giorno da 500 insino a mille de’ detti grossi pesci, quando è la stagione che varcano per il mare. Et mi narravano il modo, come fanno. Evvi una torre nel fine del Castello; che risguarda alla marina, ove nel tempo che passano detti pesci, sta un’huomo pratico, e vedendo il gran movimento dell’acque cagionate dalla moltitudine de’ detti pesci, che fanno il varco, da segno a i pescatori, quali quivi stanno apparecchiati co i debiti stromenti, e quegli incontinente colà passando, ove ha dimostrato colui, con le barchette, intorniano tutta quella moltitudine con le reti, poscia pian piano conducendogli, si appropinquano al lito già astretti nelle reti. Et mi dicevano, che non sarebbero bastevoli le reti di ferro a condurre tanta moltitudine, se havessero detti pesci il grugno duro, come hanno gli altri pesci, imperò che con la loro gran forza spezzerebbero ogni fortissima rete, ancor che di ferro fosse. Ma havendo il grugno delicato, e tenero, non possono far quella forza, che sarebbe necessaria. Conciosia cosa che incontinente,
 
 
come hanno toccato la rete con il grugno sentono tanta doglia per la delicatezza di quello, che si rivolgono a dietro, e così si lasciano condurre al lito, ove sono pigliati. Quindi lungo il lito del mare infino al piccolo castello di Bivona scorrendo sono quattro miglia. Nel qual spazio assai pescatori si trovano, quali continuamente pescano, avvenga che il lito sia piaggia, evvi però buon ridutto de’ pescatori.
(L. Alberti: Descrizione del continente e delle isole appartenenti all’Italia» Venezia 1588)
 
 
ILARIO TRANQUILLO
…essendo giunta
a ventimila scudi in circa…
«Oggettasiprimamente sotto l’occhio dei curiosi la tonnara a labirinto, in cui non per difetto del filo, ma per l’abbondanza de l’abitatori del mare si veggono racchiusi. Ella è così grande, che capace d’asserragliare quattromila tonni.
Ed oh! che bella e curiosa vista s’è mirar duecento, quattrocento e seicento tonni, pescispada ed altre varie specie, entro le reti serrate, passeggiar per esse, e correr da per tutto e con mille andirivieni e rigiri tentar indarno la uscita. Reca inoltre non picciol diletto ai riguardanti, l’uccisione dei medesimi: imperocché sgorgando dalle loro fauci ferite da graffi ferrei, maneggiati dai marinieri, copia disangue, dibattendosi con furia tra l’onde, formano in aria quasi una pioggia d’acqua mista col sangue. Certo si è che le delizie che si sperimentano in questa pescagione sono grandi, ma non è minore l’utilità, che da lei ne riceve il padrone, essendo giunta anche ai tempi nostri a ventimila scudi in circa, e più ai tempi antichi. Sono i tonni di questo mare di gratissimo sapore!
(I. Tranquillo: Istoria apologetica dell’antica Napitia, Napoli 1725).
 
 
FRANCESCO SAVERIO DE LEON Rapporto su pesca e commercio a Pizzo *
Illustrissimo Signore Padrone Colendissimo
A tenore de’ riveriti comandi di Vostra Signoria
Illustrissima rispetto al voler sapere il numero de’
marinai e Pescatori del Pizzo, non che delle barche
tanto di commercio che di pesca, come anco de’
generi che si trafficano e de’ viaggi che da dette
barche si fanno, avendone commessa la più esatta
informazione, mi dò l’onore compiegarcela. Ed
offerendomi ad altri Suoi pregiati comandi, colla
più sincera stima mi dichiaro di Vostra Signoria
Illustrissima
Monteleone li 7 luglio 1792.
Divotissimo Obligatissimo Servitore Francesco
Saverio de Leon.
Per Don Giuseppe Maria Galanti
Visitatore Generale per Sua Maestà delle
Province delle Calabrie, Napoli
Notamento di tutti li Padroni che in questa Marina del Pizzo tengono le di loro Felluche di Commercio e Paranze per lo stesso fine, come pure di tutte le Barche pescareccie, il nome e cognome di essi Padroni colla distinzione dell’i differenti Mestieri che ciascun Padrone tiene colla sua Barca ‘.
* L’autore di questa breve memoria trasmessa al Galanti, Francesco Saverio De Leon, era funzionario del governo col compito di direttore generale delle dogane di Calabria. Il Galanti ne attendeva le informazioni, come risulta dal Giornale di viaggio, capitolo XII e nota 12, intorno al problema delle dogane: del De Leon, però rimane questa sola relazione, la quale rivela sempre la particolare competenza dell’autore. Da «Giornale di Viaggio in Calabria 1792» Giuseppe Maria Galanti.
1 Fra i nominativi che seguono è da notarsi particolarmente quello di Benedetto Musolino da Pizzo: ricco mercante, giacobino e protagonista dell’erezione dell’albero della libertà e nella creazione della repubblica giacobina di Pizzo, aveva l’appalto dell’olio per i presidii di Toscana.
 
 
Felluche: Padrone Carmelo di Rosi; Padrone Nicola Peni; Padrone Francesco Antonio Savelli quondam Giovan Battista; Padrone Matteo Cefali; Padrone Saverió Gneri; Padrone Vincenzo Savelli; Padrone Saverio Procopio; Padrone Pasquale Santoro; Padrone Gregorio Callipo; Padrone Antonio Cefali; Padrone Antonio Gullo; Padrone Francesco Vinci con la Felluca di Guardia; Padrone Vincenzo Santoro: questo non traffica la sua Felluca da circa un anno a questa parte per essere sequestrata dalli creditori di esso. Paranze: che fanno il medesimo traffico: Padrone Benedetto Mosolino; Padrone Bennardo Arceri; Padrone Francesco di Rosi; Padrone Rocco Marramao, questo fa delti viaggi per Napoli e, quando non ne à, va a pescare col Palangastro 2; Padrone Domenico Pettinato; Padrone Giuseppe Tarzia; Padrone Giuseppe Malerba; Padrone Girolamo Fragalà; Padrone Francesco Savelli di Ruberto; Padrone Angelo Malerba, quando non à viaggio va col Palangastro; Padrone Vincenzo Malerba pratica lo stesso.
Trabaccolo: Padrone Giorgio di Albi.
Tartane grandi di pescare con reti a terra: Padrone Marco Frasca; Padrone Giorgio Malerba; Padrone Giuseppe Riitano; Padrone Diego di Giorgio.
Tartanelle: Padrone Nicola Leggio; Padrone Domenico Prostamo; Padrone Nicola Prostamo; Padrone Gioacchino Sangiuliano; Padrone Domenico Muzzi; Padrone Antonio Muzzi; Padrone Vincenzo Mormorati; Padrone Nicola di A loi; Padrone Pasquale Pirajno; Padrone Annunciato Marchese; Padrone Annunciato Mormorato.
1 palangastro qui strumento di pesca a più ami; nell’elenco successivo indica un’imbarcazione attrezzata per tale tipo di pesca.
 
 
Cefalare e Nasse3: Padrone Bruno Fama. Sciabachelli tira a terra ‘: Padrone Francesco Bilotta di Matteo.
Palangastri: Padrone Pasquale Mormorato ed altri tre sono quelli notati di sopra.
Sciabacche grandi/ Padrone Diego Costanzo; Padrone
Vincenzo Mormorati; Padrone Marco Frasca. Questi tre
pescano per sei mesi e cominciano dal mese di Ottobre a
tutto Marzo e cede 6 la pesca delle Tartanelle e Tortane
grandi; cedute queste, tutti li marinari si applicano su le
quattro Tonnare che in questa giurisdizione del Pizzo vi
sono.
Li marinari Fellucari sono al numero di circa 140 e non
sono né tampoco costanti per la navigazione delle
suddette Felluche e Paranze.
Li marinari addetti alla pesca sono al numero di 250
circa e pure non sono bastanti alla pescagione.
I generi che si trafficano da’ suddetti padroni di Felluche
sono per lo più seta, olio, fichi, uva passi ed imbasciate
di diversi particolari per Napoli ed altri luoghi della
Provincia e del Regno, come sono latticini, salame,
salumi 7 ed altri generi che ognuno invia a ‘ di loro amici
e parenti nella Capitale. I viaggi che soglion fare sono
3  cefalare e nasse: intende parlare di navigli forniti, in vario modo, di
attrezzi per la pesca; la massa indica, oltre allo strumento della pesca,
l’imbarcazione dotata di questo speciale attrezzo; cefalara, nel dialetto
calabrese, indica sia un particolare strumento per la cattura di pesci di
media grossezza, sia il falco pescatore, il cormorano.
4  sciabachelli tira a terra: piccole sciabiche; in questo caso la sciabica
deve intendersi, come in altri casi, come l’imbarcazione dotata di attrez­
zo omonimo.
5  sciabacche grandi : sciabiche.
6  cede: ha termine.
7  salame, salumi: il primo termine indica la carne di maiale insaccata, il
secondo indica il pesce conservato in salamonia.
 
 
quasi sempre per la città di Napoli, Salerno, Vietre, Positano, Sorrento, Castellamare, Portici, Resina, Pozzuoli, Ischio.
Per ogni anno viaggiano per Roma tre o quattro Felluche che trasportano del tonno fritto e posto in aceto; e qualche volta si noleggiano queste barche da esteri per Genova e Livorno cariche di olio e pure qualche volta viaggiano per Messina’cariche di uva passa, ma ciò accade di raro; in una parola sono barche di noleggio.
Le Paranze presso a poco portano anche delle suddette robbe, ma sempre per lo più portano passageri come pure fanno lo stesso le suddette Felluche.
(da Giuseppe Maria Galanti: Giornale di viaggio in Calabria (1792). Edizione critica a cura di Augusto Placanica, Società Editrice Napoletana, 1981).
 
 
IL «CORRIERE MERCANTILE» La mattanza miracolosa
Sulle tonnare vi sono tante leggende, molte
impostate con eccessiva fantasia poiché vi entrano
mostri marini, pesci enormi che sfondano
le barche dal massiccio fasciame e tempeste
volute da qualche cattiva fattucchiera la quale
manifestava il proprio malocchio rovesciando
sull’isola enormi onde che le impedivano di pescare.
Fra tutte riportiamo quella che abbiamo
sentito dalla viva voce di un vecchio
pescatore ma che è conosciuta da molti altri
anziani di Pizzo per cui riteniamo si tratti
i un fatto realmente accaduto, anche se sa
di miracoloso. Accadde nel lontano 1919,
quando il rais Emanuele venne promosso
dal padrone delle due tonnare di Pizzo e trasferito
dalla tonnara piccola alla direzione
di quella grande.
Ma ogni sera, a stagione di pesca inoltrata, le barche
ritornavano a riva con tutta la ciurma senza nemmeno
aver pescato un tonno.
Fu un anno capriccioso e i grossi pesci
non si sa per quale strano sortilegio,
in tonnara non vi entravano e sì che il mare
si vedeva pullulare di grossi branchi e la
tonnara piccola aveva fatto suonare parecchie
volte le campane a festa avendo pescato
molti tonni.
Il padrone, ogni sera, nel suo bianco vestito con
paglietta, bastone e sigaro insultava il povero rais
 
 
accusandolo d’incapacità e minacciando di
denunciarlo per i danni causatigli dalla sua
dabbenaggine. Lo si accusava da più parti di avere
studiato male le correnti e di conseguenza di avere
scelto un luogo di sbarramento e pesca sbagliato per
cui i tonni se ne andavano liberi evitando la trappola
mortale.
La sera le barche scivolavano sull’acqua del mare in
assoluto silenzio e i marinai non avevano lo spirito
d’intonare, come di solito facevano sempre, vecchie ed
allegre canzoni.
Il povero rais la sera si rinchiudeva in casa disertando
anche la cantina frequentata dagli altri
onnaroti.
Il paese partecipava al suo dramma ma quell’anno i
tonni parevano abbastanza furbi da sfuggire alla
mattanza.
In preda allo scoramento generale si
decise che di lì a pochi giorni era meglio
smantellare la tonnara altrimenti il grave passivo
accumulato per pagare la numerosa ciurma
si sarebbe ulteriormente aggravato.
Il povero rais decise una sera di andare a
regare nella chiesetta di San Sebastiano affinchè
qualche Santo intercedesse in Cielo con
‘Onnipotente per salvarlo, assieme alla famiglia,
dalla galera e dalla miseria.
L’indomani il miracolo avvenne.
Una passa straordinaria di tonni s’infilò
nella tonnara e per molti giorni, con le campane
del paese infesta, si pescarono migliaia
di pesci in una prodigiosa abbondanza. Quando la
stagione terminò, una sera il Rais, rientrando
 
 
con le barche nelportìcciulo, vide sul lido l’arrogante padrone circondato dai soliti curiosi che venivano a vedere se c’era del pesce da comperare. Il capociurma prese il tipico cappello a visiera che lo distingueva dai suoi subalterni e in segno di spegio lo buttò ai piedi del signorotto dicendo che il mestiere a lui non glielo poteva insegnare nessuno.
In quei giorni il Corriere Mercantile scrisse: «Mattanza miracolosa a Pizzo».
(Franco Cortese in «Calabria Letteraria» 1977).
 
 
Un ‘arte mitica
Scorgendo una tonnara volante che rientra dopo una battuta di pesca, non si sentono canti né dibattimenti per vendere all’asta la mercé, né discussioni: tutto avviene nel modo più semplice ed organizzato e in poche ore, i tonni prendono la strada delle pescherie e delle ghiacciaie.
Le tonnare a reti fisse, parliamo di quelle che si calavano (armavano) nel mare di Pizzo fino a venticinque anni fa, avevano un ‘organizzazione diversa legata ad un passato che si perde nel tempo.
Tipo di pesca prettamente stagionale, maggio, giugno e anche in settembre (tonnare di ritorno), basata su lunghe reti sbarranti il passo dei tonni e conducendoli in una trappola mortale dove venivano «mattati» a colpi di uncini.
Un ‘arte mitica che sta scomparendo nel mediterraneo, ma che lega il presente ad un passato lontano considerato che la pesca del tonno era conosciuta dai Fenici, dai Greci (Eschilo) e soprattutto dagli Arabi che la introdussero, negli anni mille, in Sicilia e poi in Calabria. Notizie sulla tonnara di Pizzo si riscontrano nel 1300 e successivamente, nel 1525, quando Leandro Alberti, ce ne da una parziale descrizione potendo così noi comparare le tecniche, del passato col presente, rimaste pressappoco invariate. Un tempo, i tunnidi avevano più vita poiché venivano pescati solo nella stagione degli amori ma oggi, con le moderne tecnologie, la «caccia» si effettua tutto l’anno e verrà il tempo in cui si dovranno prendere provvedimenti legislativi restrittivi se non vogliamo dire: «c’era una volta il tonno».
(Franco Cortese in «La Tonnara 1988, giornale numero unico)
 
 
Mattanza
 
 
Mattanza
 
 
 
 
 
Leva! leva! leva! la tunnara cu abbundanza, assumunu li tunni, cumingia la mattanza. Lu silenziu di nu minutu prima non ‘nge ‘cchiu, ‘ngi sugnu sulu grida.
Si stringiunu li varchi ‘nda ‘la riti, sugnu musciari, caparrassu e colanniti, e la ‘rrasu ‘nda lu ‘scieri aza bandera signala alla loggia ca la tunnara leva.
Sonanu li cambani di li chiesi, spandunu u scambaniju fra li casi; arrasu estifora e chistu esti duci, e tanda gendi si signa ‘cu ‘Ila cruci.
Subutu lupaisi trasi infesta e di li vichi, di li chiazzi e diportuni, la gendi nesci, fujiendu lesta lesta, s’affaccia dalli timbi e di barcuni.
Ognunu smiccica culla manu all’occhji, pemmu scorgi la varca ‘scieri chi signala, e cuntendu resta quandu sind’accorgi, ca sventulijia la bandera italiana.
Leva! leva! leva! La riti lenda ‘nchiana, scambanija forti San Franciscu lundana, ‘echi ‘ppe votu, ‘ngi tocca u tunnu dajornata accussi prega mu arriva prestu natra levata.
 
 
Leva! leva! leva! la tonnara con abbondanza emergono i tonni, comincia la mattanza. Il silenzio di un minuto prima non c’è più, ci sono solo grida.
Si stringono le barche intorno alla rete, sono «musciari», «caparrassu» e «colanniti», e il rais dallo «scieri» alza la bandiera segnala alla loggia che la tonnara leva.
Suonano le campane delle chiese, il suono delle campane si spande fra le case; il posto scelto dal rais è buono e ciò è dolce, e tanta gente si segna con la croce.
Subito il paese è infesta e dai vicoli, dalle piazze e dai portoni, la gente esce, camminando lesta, s’affaccia dalle alture e dai balconi.
Ognuno si para il sole con la mano sugli occhi, per vedere la barca «scieri» che segnala, ed è contento ognuno quando si accorge che sventola la bandiera italiana.
Leva! leva! leva! la rete lenta sale,
sono forti le campane di San Francesco da lontano,
che per voto gli tocca il tonno della giornata
e così prega perché arrivi presto un ‘altra levata.
 
 
Franco Cortese
 
 
‘A Tunnara
 
 
La Tonnara
 
 
 
 
 
Pè secula jettammu la tunnara du scogghiu d’a «Catino» all’atti mari. La trappula calava para para na squatra di summastri marinari pè l’arcu du pedali, tutti nzema, quandu mangava vendu e puru ‘a rema. Si ng ‘era la currendi si spostava di ngunu jornu tuttu l’armamendu, si no la rizza ‘u mari la mbrogghiava. Si ng’era bonu tembu, a nu mumendu, sonavanu i cambani cu allegria ca la tunnara a motu si mendìa!
Allora, arràsu l’ordini dunava:
— Calati ‘a rizza comu voli Dio!… —.
Poi subbra na «musciàra» secutava:
— A mari a tutti vi cumandu io!
Ma stati attendi, o testi di cazzuni,
ca nderra vi cumanda lu patruni!… —. ‘A ciurma rispundìa cu n ‘arrisala e faticava all’ossu singa a sira: cussi si guadagnava la jornata -gridandu «Tira e molla! Molla e tira!» d’àngurì, catini e mazzacani chi a tutti quandi ngi ruppènu i mani.
E doppu cchiù simani di lavuru pemmu si mendi a postu tutt’a rizza arràsu sifacìa nu pocu scuru e non mustrava troppa cundendizza. Sapìa ca s’a tunnara nopiscava la curpa sulu a iju ognunu dava. Ma quandu «portanova» si movìa mu chiudi i tunni dindra la tunnara arràsu subbra « ‘u sceri» abbiviscìa senza sendìri cchiù la vucca amara:
—        Levamu a tunni, fati lu signali!
 
 
Per secoli gettammo la tonnara
dallo scoglio della «catena» all’alto mare.
La trappola calava in modo giusto
una squadra di supermaestri marinari
per l’arco del pedale, tutti insieme,
quando mancava vento oppure la corrente.
Se c’era la corrente, si spostava
di qualche giorno tutto l’armamento,
se no la rete il mare l’imbrogliava.
Ma se c’era buontempo, in un momento,
suonavano le campane con allegria
perché la tonnara in moto si metteva!
Allora, il raìs l’ordine dava:
— Calate la rete come vuole Dio!… —.
Poi, sopra di una «musciàra» ‘ seguitava:
— A mare, tutti vi comando io!
Ma state attenti, o teste di cretini,
che in terra vi comanda il padrone!… —
La ciurma rispondeva con una risata
e faticava spolpata sino a sera:
così si guadagnava la giornata
gridando «Tira e molla! Molla e tira!»
di àncore, catene e grosse pietre
le quali a tutti quanti spezzavano le mani.
E dopo molte settimane di lavoro
per mettere a posto tutta la rete
il raìs si faceva un pò ‘ scuro
e non mostrava troppa contentezza.
Sapeva che, se la tonnara non pescava,
la colpa solo a lui ognuno dava.
Ma quando «portanova» 2 si muoveva
per chiudere i tonni dentro la tonnara
il raìs sopra dell’«usciere»3 si rianimava
senza sentire più la bocca amara.
—        Tiriamo su la rete con i tonni, fate il segnale!
 
 
Azòti la bandera nazzionali!
Chiuditi ‘aporta, òmanidu «sceri»!… —
E a «colonnitu» poi ngi dumandava:
—        Diciti, prestu! Cacciatimi ipenzeri
ca stu mumendu cchiù non arrivava:
Ipisci sugnu pocu o cendinara
mu tìnginu disangu la tunnara?… —. Di «colonnitu» ngunu marinara jettand’ogghiu mufaci l’acqua chiara quatrava ‘u cundu a vista paru paru e poi dicìa: — Su cendu o su migghiara! … E comu tandu lestu li cundava: di ngunu pochiceju si sbagghiava!
La rizza di la «cambara d’a morti» vicinu a «capparrassu» si tirava cu dui «musciàri» e marinari forti e cu l’angìni i tunnis’ammazzava candandu: — Chista morti chi vi damu ndi serbipè lu pani chi mangiamu! A casa avimu figghji cu mugghieri, la spisa no ndi dannu iputighari; oji mangiamu certu cchiù d’ajeri c’allu patruni tràsinu dinari. E lafinimu ccà la litania cu «reculamaterna» e cusì sia!… —.
La « Catarini» poi s’ingarricava mu tira li «musciàri» e lu piscatu: jà nderrafing ‘a «loggia» li portava. Ognunu si sendìa benificatu guardandu mbisa chija gran ricchizza chi ‘u mari ndi dunava cu na rizza.
Poi vinni l’ura chi sparìu ogni cosa: li varchi, la tunnara, i tunnaroti.
—        Ndi restanu li spini senza ‘a rosa!
mi veni dipenzari tandi voti
pè chista civirtà chi nui volimmu a scàpitu du beni chi perdimmu. ‘U mari d’ogni parti paru paru
 
 
Alzate la bandiera nazionale!
Chiudete la porta, uomini dell’«usciere»!… —
E a «colonnitu» 4 poi domandava:
— Dite, presto! Toglietemi gli affanni
perché questo momento più non arrivava:
Ipesci sono pochi o a centinaia
da tingere di sangue la tonnara?… —
Da «colonnitu» qualche marinaro
gettando olio per fare l’acqua chiara
quadrava il conto a vista giusto giusto
e poi diceva: «Son cento o son migliaia!…» —
E come celermente li contava:
di qualche poco si sbagliava!
La rete della «camera della morte» 5
vicino al «caporaìs» 6 veniva tirata
con due «musciare» e marinari forti
e con gli uncini i tonni venivano ammazzati
cantando: — Questa morte che vi diamo
ci serve per il pane che mangiamo!
A casa abbiamo figli e mogli,
la spesa non ci accordano i bottegai;
oggi mangiamo certo più di ieri
perché al padrone entrano molti soldi.
E la finiamo qui la litania
con «requiem aeternam» e così sia!… —
La «Catarini» 7, poi, si assumeva il compito
di tirare a rimorchiare le «musciare» con il pescato:
là, a terra, fino alla «loggia» 8 li rimorchiava.
Ognuno si sentiva beneficato
guardando appesa quella gran ricchezza
che il mare ci donava con una rete.
Poi venne l’ora che fece sparire ogni cosa: le barche, la tonnara, i tonnarotti.
— Ci restano le spine senza la rosa! —
mi viene da pensare, tante volte,
per questa civiltà che noi abbiamo voluto a scapito del bene che abbiamo perduto. Il mare d’ogni parte tutto intero
 
 
ve ni linghiutu d’ogni schifinzia ca lu pigghiammu pè nu mimetizzarli e mori ‘ijornu ajornup’a lordìa. No ng’è cchiù leggi o carità cristiana e la cuscenza faci la buttano!
Palàmiti, sgambirri, li calarmi,
i moli, i tunni duvisi ndijiru?
Mu scànzanu du mari nostru i danni
sembri cchiù a largu fannu mò lu giru:
no cercanu di fari cchiù l’amuri
vicinu a costa, ormai nu pisciaturi!
David Donato
 
 
viene riempito d’ogni schifezza
perché lo abbiamo scambiato per un mondezzaio
e muore di giorno in giorno a causa della sporcizia.
Non vi è più legge o carità cristiana
e la coscienza fa la puttana!
Palamiti, sgambirri e calanne, ipesciluna, i tonni dove sono andati? Per evitare del mare nostro i danni sempre più a largo fanno adesso la rotta: non cercano di fare più l’amore vicino alla costa, ormai una latrina.
 
 
1  Musciara : barca addetta a svariati servizi.
2  Portanova : barca posta all’entrata della Tonnara così chiamata per­
ché portava le buone novità dell’entrata dei tonni nella trappola.
3  ‘Usceri: barca detta usciere perché addetta alla chiusura della porta
che immetteva i tonni nella camera della morte per la mattanza.
4  Colonnitu : barca che stava tra l’usciere e il caparrassu con quattro ma­
rinai sempre intenti a guardare nello specchio di mare delimitato dalla
camera della morte, ai quali incombeva il compito di dire con approssi­
mazione la quantità dei pesci intrappolati e, quindi, stabilire di sollevare
la rete per la mattanza.
5  Camera della morte : così chiamata la rete che non dava più scampo ai
tonni catturati.
6  Caparrassu: la barca più grande, costruita in maniera inaffondabile,
manteneva tutta la rete della Tonnara, detta isola o pescheria.
7    Caterina : la barca a motore era dedicata alla marchesa Caterina Ga­
gliardi. Veniva popolarmente chiamata «Catarini» e trainava all’alba e
al tramonto le barche che trasportavano da terra alla Tonnara e viceversa
i tonnarotti e quelle colme di tonni dopo ogni pescata verso la loggia, cioè
il centro di raccolta a terra del pescato.
8  Loggia : grande magazzino di raccolta delle attrezzature della Tonnara
e di tutto il pescato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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