LA TONNARA
di Franco Cortese
 
II processo che ha rivoluzionato le antiche strut­ture economiche e i mezzi produttivi, tende a seppellire un mondo appartenente ad un passato in cui le esigenze erano rapportate ad un tenore di vita più difficile, ma più umano diremmo, senza perifrasare, a misura di uomo. Negli ultimi anni anche la tonnara di Pizzo, unica nel suo genere lungo tutta la costa calabra, non ha potuto sottrarsi alla legge spietata dell’adattarsi o perire e, dopo secoli di produttiva attività nel campo della pesca dei tonni, è dovuta passare all’angolo dei ricordi oppure è diventata materiale di letteratura vernacolare per i racconti dei vecchi marinai.
Legata ad un sistema di pesca importato dagli Arabi negli anni mille, basato sulla staticità delle reti annegate a mare e sbarranti il passo ai tonni lungo la loro rotta, e di conseguenza intrappolati in concamerazioni costruite di reti a corda o «gutamu», la tonnara fissa rifletteva, in effetti, un sistema arcaico di cattura, e, per forza, doveva soccombere sotto la spietata mannaia del tutto industrializzato.
All’immota tonnara fissa si sostituirono prepo­tentemente, provenienti da altre regioni o nazioni, flotte pescherecce veloci e dotate di apparec­chiature modernissime come i sonar e i radar per l’individuazione dei branchi di pesci. Non più i remi delle pesantissime ed impeciate imbarca­zioni dovevano tuffarsi e spingere nell’acqua per raggiungere il posto di pesca, né il canto dei re­matori ritmato con lo sciacquio dell’acqua che sia all’alba che al tramonto si udiva sin dalle più remote case, ma potenti navi dall’affilatissima prua solcavano il mare lasciandosi dietro bian­chissime scie ribollenti di spuma le quali rende­vano ondoso il mare.
Comparve la scienza. Fu la fine! Le nuove navi, chiamate «tonnare volanti» rivoluzionando il vecchio metodo di cattura dei tonni, incrociava­no il mare in lungo e in largo, dando la caccia ai grossi e prelibati pesci dalle ottime carni, i quali una volta avvistati e circondati con resistentissi-me reti venivano stretti fino a provocarne il soffocamento per cui, poi, era facile issarli a bordo per mezzo di bighi. Praticamente non era più il tonno che si imbatteva, sfortunatamente per lui, negli sbarramenti della tonnara fissa, ma era l’uomo, ora che gli dava la caccia organizzata.
L’ultima stagione di pesca della tonnara fissa di Pizzo fu nel 1963, ma non riuscì a controbattere la concorrenza pescando solo 12 tonni e chiu­dendo con un pesantissimo disavanzo negli inve­stimenti. Le tonnare nipponiche comparvero un mattino di maggio portatoci di nuove tecniche nel campo della pesca, per cui i pescatori indigeni dovettero abbassare bandiera non conoscendo altro sistema che quello dei propri padri. Centinaia di provetti pescatori, espertissimi «tonnaroti», dovettero cambiare mestiere emi­grando a Genova ed imbarcandosi sulle navi mercantili. Altri si diedero alla piccola pesca o al mestiere del pescivendolo. Anni di esperienza, segreti professionali tramandati da padre in figlio, speranza di un’esistenza migliore, mestieri periferici attinenti al complesso della tonnara: di colpo si dovette constatare che si trattava di virtù lavorative legate al passato e non più conciliabili col futuro meccanizzato. La tonnara di Pizzo, in quella stagione, chiuse definitivamente dando via libera ai nuovi padroni del mare nella pesca dei tonni: le tonnare volanti.
Le fabbriche locali per la lavorazione del tonno, costituenti l’unica e florida industria alimentare regionale specifica, corsero subito ai ripari; si modernizzarono in tutti i reparti ed intrapresero contratti con i nuovi pescatori del golfo.
La giusta impressione che si riceve parlando con gli ex «tonnaroti», riguardo alla soppressa ton­nara, è di intrattenerli ad una conversazione pia­cevole, cara e familiare.
Subito ti conquistano narrandoti di pesche mira­colose, di annate drammatiche con tristissime magre, di giornate cocenti passate sotto il solleo­ne, di tragedie per incidenti capitati ad elementi della ciurma, condendo il tutto con un succo che da sapore di avventura ai racconti. E mentre ti parlano traspare, dal loro volto e dalla loro mi­mica gesticolante, una genuina dose di nostalgia e la speranza che un giorno possano tornare le vecchie tonnare.
 
La conversazione è piacevole e interessante, ma si inaridisce quando si scivola nel passato. La storia per loro si ferma ai racconti dei nonni per cui è necessario ricorrere alle testimonianze dei viaggiatori antichi per dimostrare, in queste pa­gine, come sia millenaria la pesca del tonno nel golfo di Sant’Eufemia. Come riporta Girolamo Marafioti da Polistena nel suo «Croniche et an­tichità di Calabria» del 1601, già a quell’epoca a Pizzo si pescavano in abbondanza i tonni, ma lo stesso autore esalta la qualità del pescato così co­me lo gustarono anticamente i Greci e Romani. Infatti Archestrato, poeta greco di Gela vissuto nel IV sec. a.C. lodava i tonni del nostro mare come si legge nel settimo libro d’Ateneo, erudito greco, dove ragionando dei detti pesci, così scri­ve: «S;fort Hippony Italiaeperveneris ora, opti­mi eruntMie tynni cunctorum». «Se per caso ti trovi a passare dalle parti di Hypponion, lì po­trai assaggiare tonni particolarmente squisiti». Il tonno è un pesce dalle abitudini poco cono­sciute; si sa che durante la stagione degli amori, maggio-giugno, appare nei nostri mari per de­porre le uove. Ne deposita a milioni ed esse han­no la forma di una sfera del raggio di un millime­tro; bisognose di acque assolate, miriadi di queste palline vengono alla superficie sostenute da una goccia di olio e depositate nell’ambiente me­glio favorevole, si sviluppano. Purtroppo, solo una minima parte di queste uova riesce a portare a termine il ciclo riproduttivo, poiché i più ven­gono divorati dai minuscoli pesci onnipresenti nel mare. Dopo questa breve comparsa, il pesce, dall’elegante corpo affilato, si rituffa negli abissi marini e non lascia traccia della rotta intrapresa. Si ritiene che sverni nelle profondità più marcate del Mediterraneo e che sia errato volerlo emigrante nelle acque dell’Oceano Atlantico. È probabile che la timidezza dimostrata dal tonno, quando incontra le reti di sbarramento, sia da attribuirsi a qualche parte del dorso particolar­mente delicata al contatto. I vecchi marinai so­stengono che ciò è dovuto al fatto che il pesce ha un notevole difetto ottico per cui vede gli oggetti deformati e quindi ne ha paura. La carne, salata, o bollita e inscatolata, è di un ottimo sapore, mentre, il richiestissimo uovo di tonno «bottariga», è apprezzato come antipasto e ha un potere afrodisiaco universalmente riconosciuto.
 
La tecnica delle moderne tonnare volanti, si svi­luppa sostanzialmente in tre fasi particolarmente importanti: —individuazione ed assedio del branco mediante una robusta rete disposta a circolo; —stringimento della stessa mediante il cavo di fondo fino a costituire una specie di gabbia a cono; — costringimento dei tonni in un strettissimo spazio, sempre all’interno della rete, fino a paralizzare i movimenti e provocarne il collettivo soffocamento.
Infatti, sviluppando il pesce in oggetto una velo­cità notevole che varia dai 60 ai 70 km orari, con tale moto riesce ad incamerare, attraverso la bocca, tanta acqua da ricavarne alle branchie la quantità di ossigeno sufficiente alla propria sus­sistenza.
Ora, costringendo il pesce ad operare in uno spa­zio insufficiente, poiché la rete di accerchiamen­to si restringe, accalappiata com’è al fondo ed in superficie da due resistentissimi cavi di acciaio opportunamente manovrati dagli argani di bordo, avviene che il movimento veloce è impossibile per l’infittimento del branco, e, per conseguenza, sopravviene la pazzia e, quindi, la morte per asfissia.
 
Dopo di che è facile rimorchiare la rete colma di tonni ed operare l’imbarco mediante bighi.
Sebbene i vecchi marinai abbiano abbandonato la tecnica della pesca tramite tonnara fissa, la ri­spettano e ne parlano volentieri, dando, con no­tevole maestria, tutti i dettagli costruttivi ed ope­rativi. Quindi ritenendola cosa utile, ne abbia­mo raccolte tutte le informazioni al fine di ripor­tarle in queste pagine e renderle di pubblico do­minio.
La tonnara fissa calabrese era basata principal­mente sulla rete sbarrante detta «pedale» lunga 1800 metri e, sull’isola, costituita da una flotti­glia di barconi disposti in modo da delimitare uno specchio d’acqua rettangolare, suddiviso, da una serie di reti fisse, in tante concamerazio-ni. La costruzione, o, come si diceva, la messa a mare della tonnara, (e si ricordi che con questo nome fino a qualche anno fa si indicavano anche le strutture immobili come fabbriche per la lavorazione del tonno o vasti appezzamenti di terreno per la conservazione delle pesantissime ancore in ferro), avveniva nel mese di maggio, mentre s’iniziava a lavorare, per rendere efficienti le imbarcazioni, già dai primi di aprile. Infatti si dovevano mettere a punto le reti, impeciare le barche, calafatare i rimorchiatori, preparare i grappini e le ancore, ripristinare le «ballette» di sughero andate disperse l’anno prima, preparare nuovi ganci e verricelli nel grande magazzino detto «loggia» che serviva da spaccio di vendita all’ingrosso. Il Rais o capo-tonnara (dall’arabo – capo) oltre a dirigere questi lavori di manutenzione, doveva uscire spesso in mare per studiare la posizione migliore al fine di ubicare il complesso dell’isola. Momenti intimi di comunicazione col mare, ore intere a studiare le correnti, paure ed ansie precoci per il futuro, poi infine, rotti gli indugi, il momento della scelta ove affondare le reti. Una ciurma di circa 60 persone, una volta scelta la «posta», fissava come prima cosa tre cavi di acciaio: due, lunghi 400 metri, disposti a binario e paralleli alla costa, venivano annegati a circa 1800 metri dalla costa, mentre il terzo, partendo dalla parte mediana dell’isola arrivava sino ad uno scoglio detto della «catena», situato a pochi metri dalla riva. I primi due sostenevano le reti verticali delle con-camerazioni, mentre il terzo sorreggeva la rete sbarrante detta «pedale». Le reti erano mantenute in posizione verticale da pesanti zavorre costituite da ancore e pietre al fondo, mentre venivano stirate verso la superficie da galleggianti in sughero dette «ballette». Il corridoio rettangolare dell’isola veniva suddiviso da tante reti in cinque concamerazioni così chiamate: porta chiara, incerrato di levante, incerrato di ponente, camera di portanova, camera della morte. La tonnara era sostenuta da un’enorme barca detta «caporais “volgarmente” caparrassu» mentre le altre erano denominate: portanova, colonni-tu, uscieri, musciari, rimorchiatore «Caterina», rimorchiatore «Tunnu». La camera della morte era una rete a tronco di piramide con la base maggiore di lato 25 m. mentre il lato di base mi­nore 17 m. circa veniva assicurato alla barcaccia «caporais».
 
I tonni seguivano preferibilmente una rotta sot­to-costa provenienti da nord-est; quando s’im­battevano nella rete «pedale» erano costretti a deviare verso il largo poiché non potevano dicerto nuotare verso riva. Essi andando alla ricerca di un varco, giungevano nella bocca della tonnara la quale veniva chiusa da una rete a maglie larghe, onde permettere l’entrata ad altri tonni, una volta constatata la presenza dei pesci. Qua­lora il branco si spingeva verso porta chiara, ur­tava contro le reti e s’impauriva talmente da ri­tornare indietro e non ripetere più l’operazione. Altra direzione che potevano prendere, una volta arrivati nei pressi della tonnara, era quella ad est; ma trovavano sulla loro rotta un’altra lunga rete detta «rivotu» o «mustazzu», per la sua forma a risvolto, la quale li costringeva a desistere dall’impresa e ritornare verso la via della trap­pola.
Una volta dentro, s’imbattevano nelle reti dette «incerrate di levante», le quali delimitavano una sala corridoio che permetteva ai pesci di portarsi verso le altre camere. Entrati in questo corridoio, che si profilava fino all’incerrato di ponente (dallo spagnolo = incerrar = chiudere) potevano o dirigersi verso la camera di portanova o so-starvici permettendo così agli osservatori di poterne valutare il numero, la specie e la qualità. Quando un numero di pesci passava nella camera di portanova, quattro o più marinai tiravano delle funi ed issavano una rete-porta impedendo l’entrata agli altri pesci, ritenendo il numero di quelli passati sufficiente per una prima «levata», ed anche perché molti tonni avrebbero potuto danneggiare le strutture. Da qui, con lo  stesso sistema e cioè tramite una porta a rete, i tonni si facevano passare nella camera della morte, gli uomini di portanova davano la buona notizia della presenza dei pesci mentre dalla barca colonnito il Rais, considerato il numero dei pinnati presenti nella camera della morte suffi­ciente, comandava la chiusura della porta al gri­do di leva-tira ed incitava la ciurma alla levata. Una volta intrappolati nella camera della morte, i tonni non avevano più scampo. Tutte le opera­zioni precedenti avvenivano in un silenzio litur­gico mentre all’improvviso un grido agghiacciava il sangue dall’emozione ed anche perché giungeva improvviso ai curiosi che a gruppi si recavano giornalmente all’isola con imbarcazioni proprie «Leva, leva, leva! — Gridava il Rais — Leva! — rispondeva la ciurma», la quale iniziava un concerto di canzoni folk di tradizioni marinare. In quei canti traspariva la gioia dell’attesa e forse anche l’illusione che la fatica sarebbe divenuta un divertimento accordando la rima e assecondando il solista. La pesante rete saliva, lo specchio d’acqua calmo s’increspava, ad un certo momento figure di enormi pesci dal colore blu-nero s’intravvedevano miste a quelle di altri pesci di varia grandezza, colore, forma. Man mano che la rete saliva i tonni impazzivano ed allora iniziava un cozzare di pinne, uno sbattere di code, un crescere del ritmo dei movimenti delle branchie. La schiuma già si colorava di rosso, i marinai aumentavano le grida ed impugnavano  gli arpioni, milioni di gocce d’acqua si sollevava­no e ricadevano come tanti zampilli multicolori. Il tonno ribelle veniva uncinato, bastonato, mattato. In poco tempo le barche si avvicinavano e formando un quadrato iniziavano la mattanza. Sulla barca «uscieri» si alzava la bandiera nazionale che stava a significare alla lontana gente del paese che si «levava a tonni». Subito la cittadina del golfo scendeva in festa. Le chiese per antica tradizione, suonavano le campane, e tutta la popolazione si portava sulle spiagge o sulle piazze per scrutare in lontananza le barche che pescavano. Al locale convento di S. France­sco di Paola, per voto toccava il tonno più gros­so per ogni buona mattanza.
 
Mentre le tonnare siciliane usavano un metodo di comunicazione con la «loggia» (ove di solito sostavano i proprietari) basato sulle bandiere e su di un particolare cifrario, la tonnara di Pizzo usava un cifrario convenzionale a numeri arabi. La vedetta da terra, aiutata da un potente bino-colo, poteva leggere i numeri esposti sul segnale posto sul barcone caporais seguendo così la campagna e le varie fasi della pesca. Il cifrario, conservato fino a qualche tempo fa nella loggia di Vibo Valentia Marina, pare sia stato inventato dal Sig. Cantafio che mantenne in gestione la tonnara per lungo tempo, mentre prima si usava un sistema di segnalazione a bandiere diversamente colorate.
 
 
La decifrazione veniva affidata a poche persone di fiducia in modo di non dare adito ai pesciven­doli di conoscere a priori la quantità del pescato e di tirare sul prezzo di acquisto già all’arrivo delle prime barche a terra ed anche per un motivo di superstizione, poiché si credeva nel «malocchio».
Diamo qui il significato di alcuni numeri di quel codice: n. 14: si leva a tonni grossi; 17: si leva a pescespada; 18: silevaacalanne; 19: si leva a pa­lamite; 3: mastino in tonnara; 25: sono oltre 100 tonni; 62: forte corrente, non si può pescare; 75: le reti hanno sofferto molto; 80 aiuto di barche; 81 : il padrone venga a bordo; 82: siamo senz’ac­qua; 84 marinaio ferito, viene a terra, medico pronto; 89: aiuto di 25 uomini. Strutture e metodi che sapevano di medioevo, ma che ci rivelavano come l’uomo, sorretto da una volontà di continuare la propria esistenza legata ad usi e costumi atavici, era capace di superare notevoli difficoltà e sopportare grossi sacrifici. E magari la sera, dopo una giornata massacrante, tornando a casa, si sentiva sereno e non avvertiva la preoccupazione che all’indomani, aall’alba, a forza di braccia, bisognava nuovamente remare verso l’isola e ricominciare col canto e col sorriso sulle labbra.
 
(Franco Cortese in «Calabria Letteraria» anno XXV n. 7-8-9 del 1977)
 
 
LEGENDA:
 
1) Barca Caparrassu 2) Barca Colonnitu (barca del rais)
 
3) Barca Sceri
 
4)  Barca Portanova (da la buona notizia)
 
5) Barche Musciare (barca del sotto rais)
 
A) Cammara Randi (camera grande)
 
B) Cammara Piccirija (camera piccola)
 
C) U Cannamu (anticamera della morte)
D) U Spissu o Coppu (camera della morte con rete a coppo)