LE TONNARE

di Domenico CURATOLO

Discordi sono tuttora i pareri degli esperti sugli spostamenti che i tonni compiono in prossimità del loro periodo riproduttivo; la divergenza tra le opposte tesi riguarda solamente il percorso. Una prima teoria antichissima, detta teoria migratoria, sosteneva che l’itinerario dei tonni, oltre al Mar Nero e al Mediterraneo, comprendesse anche l’Oceano Atlantico e forse anche altri mari. La seconda teoria, detta teoria autoctona, sostenuta da molti moderni naturalisti, afferma che le migrazioni si limitano ai soli mari del bacino Mediterraneo. Comunque sia, in primavera, i grandi branchi raggiungevano le nostre coste, indotti dalla temperatura mite del nostro mare, dalla limpidezza e dell’adeguata salinità delle sue acque, per deporre e fecondare le uova. Durante la prima fase del percorso, che precedeva la riproduzione, venivano detti «tonni di corsa» e dopo la riproduzione, nel concludere il ciclo migratorio, venivano detti «tonni di ritorno».
In conseguenza dell’andamento del ciclo migratorio, esistevano «tonnare di corsa», che operavano prima che la riproduzione avesse luogo, «tonnare di ritorno», che operavano dopo ed, eccezionalmente, tonnare che, mediante piccole operazioni eseguite in tempi brevissimi e consistenti nella semplice inversione della posizione di alcune reti, potevano essere utilizzate sia per la «corsa» che per il «ritorno». In sostanza la funzione preminente di queste insidiose trappole era quella di sbarrare il passo ai tonni e convogliare verso la «camera della morte» queste meravigliose e perfette creature che, spinte dal supremo istinto della procreazione, percorrevano i medesimi itinerari coprendo percorsi di migliaia di chilometri. Le tonnare erano organismi funzionanti in modo perfetto; ognuna possedeva sulla spiaggia ampi appezzamenti di terreno con capaci strutture in muratura, dette «logge». Quando le tonnare erano in piena attività, le funzioni delle «logge» erano molteplici e comprendevano anche la pesatura dei pesci catturati, la sezionatura e la salagione, le trattative e le vendite. La «loggia» era continuamente in comunicazione con la ciurma  a  mare per mezzo di segnalazio­ni convenzionali, note solamente agli addetti ai lavori.
Nei periodi in cui le tonnare non erano operanti, nelle «logge» venivano immagazzinati gli enormi barconi, i rimorchiatori, le numerose pesanti ancore, tutto il complesso sistema di reti e cordami e le altre attrezzature di dotazione della tonnara. Inoltre nelle «logge» era sistemato l’ufficio amministrativo.
Le tonnare fisse, oggi totalmente sostituite da modernissimi e sofisticati sistemi di pesca, furono oggetto nel passato di numerose e discriminanti concessioni di privilegi feudali. Proprietari erano sempre i soli feudatari, a cui venivano concessi i posti più propizi, chiamati «pali», dove poter convenientemente installare le «logge» con l’insieme dei dispositivi di pesca. Dopo l’eversione della feudalità, i «pali» vennero dati in concessioni temporanee che, con l’Unità d’Italia, furono regolate da leggi tassative. Le disposizioni regolavano, soprattutto, le distanze da osservare tra le tonnare, che operavano nella stessa zona di mare. Tali distanze, che nel corso dei secoli generarono furibonde e lunghissime contese tra i proprietari di tonnare confinanti, non dovevano essere mai inferiori a cinque miglia marine dal lato della tonnara, in cui era ubicata la porta, attraverso cui entravano i tonni e a tre miglia dal lato opposto. Molto spesso i proprietari, per poter avere un maggiore spazio di mare a disposizione e quindi una maggiore possibilità di pesca, chiesero ed ottennero la concessione di diversi «pali» contigui. Successive disposizioni legislative, però, stabilirono che le concessioni venivano revocate, qualora i «pali» fossero rimasti inutilizzati per un determinato periodo di tempo, al che i concessionari, per ovviare a quest’ultima disposizione, attuarono di volta in volta lo spostamento di tutti i dispositivi di pesca nel «palo», dove correvano il rischio di perdere la concessione. I proprietari non sempre gestivano direttamente le proprie tonnare, ma spesso le davano in affitto, concordando il prezzo del canone sulla base della presunta redditività dell’impianto, che veniva stabilita su presupposti quasi sempre aleatori. La pescosità delle tonnare dipendeva esclusivamente dalla concomitanza di favorevoli circostanze casuali, le cui previsioni non davano alcun margine di sicurezza. La gestione in affitto, perciò, si rivelò un vero gioco d’azzardo, che alcune volte portò all’impoverimento o alla completa rovina dell’affittuario.
Le tonnare venivano installate nei «pali», posti in zone di mare, dove si prevedeva il passaggio  dei tonni in migrazione genetica. Numerose furono quelle che operarono nel passato in Calabria; infatti lungo le coste, un po’ dovunque, ancora si possono osservare ruderi di antiche «logge» e, nella toponomastica, diverse località litorali sono denominate «tonnara». A giudicare dal numero degli impianti, anche se si tiene conto che alcuni funzionarono limitatamente e quasi sempre per non perdere il diritto della concessione del «palo», è lecito dedurre che le tonnare, in particolare quelle ubicate lungo le coste del golfo di Sant’Eufemia, furono impianti economicamente validi, se operarono ininterrottamente per svariati secoli. Quelle, installate nel golfo di Sant’Eufemia, furono tutte del tipo «tonnara di corsa» ed erano situate nelle seguenti località:
—   una a Falerna;
—   una ad Acconia, nel Comune di Curinga;
—   due situate molto vicine a Pizzo, delle quali una, detta «tonnara d’ ‘a Cerza», perché nei pressi della spiaggia, dove faceva capo, esisteva un grosso albero di quercia; l’altra detta «tonnara di Langhjuni». (Le località, do­
v’erano situate, facevano allora parte del Comune di Maierato, mentre oggi fanno parte del Comune di Pizzo);
—   due a Pizzo, delle quali una era detta «tonnara Grande» o «Antica» o «tonnara d’ ‘a  Praja», l’altra, detta «tonnara Piccola» o «d’ ‘a Gurna»;
—   una a Santa Venere, (l’odierna Vibo Marina);
—   una a Bivona;
—   una a Briatico, detta «tonnara delle Braci» o «della Rocchetta».
In tempi molto remoti operarono altre tonnare, delle quali però non si hanno precisi riferimenti. A proposito delle tonnare di Pizzo, da una serie di articoli dal titolo: «Le tonnare in Calabria nel XVI e XVII secolo — A utarchia alimentare —, a firma di Ernesta Bruni Zadra, pubblicati dalla «Gazzetta del Sud» nei numeri del 27-29 e 31 di­cembre 1979, si riportano i seguenti brani: «Delle due tonnare di Pizzo, che facevano parte delle entrate feudali dei de Silva e Mendoza, principi di Mileto, una, la più grande, ha origini remote. Nei documenti la si definisce «tonnara Antica» e tale è in effetti, perché pare sia stata messa in mare nel 1475, concessa da Alfonso d’Aragona al duca di S. Severino. Venne goduta sino al 1505 dal duca dell’Infantado e passò per un certo tempo al Comune di Pizzo, «in considerazione delle sue necessità e per potersi costruire una strada»… La seconda tonnara, detta «delli Gurni», fu calata in mare più tardi, rispetto alla prima, e cioè nel 1578. La decisione di impiantarla fu presa da un’energica donna, la principessa Anna de Silva de Mendoza. «A 27 aprile 1578 si è posta la tonnara delli Gurni in mare…». È questo il suo atto di nascita, ma l’avvio della «tonnarella» fu lungo e travagliato. Il suo  sorgere, infatti, provocò una violenta reazione da parte del duca di Monteleone, proprietario delle due tonnare di Bivona e di S. Venere, il quale temeva che questo impianto concorrenziale, avrebbe danneggiato l’attività delle sue imprese. Nel Relevio del 1579 tra le spese da detrarre dall’imponibile di detta Corte, era compresa una certa somma in ducati, spesi «per tanta roba da mangiare nel sorgere della nuova tonnara delli Gurni, dove pervennero lo 111. Governatore e li officiali di S. E. e la maggior parte dei gentiluomini del Pizzo per fare faccia alla parte avversa che erano gli officiali del duca di Monteleone che minacciavano volersi assaltare…». La vertenza fu portata dinnanzi alla Regia Udienza di Cosenza… Nel 1548 la lite non era ancora composta…».
La controversia non fu mai risolta, infatti le tonnare, oggetto della lite, continuarono a pescare per circa quattro secoli dall’inizio della vertenza, senza che si verificassero gli inconvenienti paventati dal duca di Monteleone a danno delle sue tonnare.
La tonnara di Santa Venere operava usando, a volte, la concessione di «pali», situati anche molto distanti, come quello di Falerna, presso Capo Suvero, o quello di Santa Irene, presso Briatico. Faceva base nella «loggia», ubicata nelle vicinanze della banchina del porto dell’odierna Vibo Marina. Ultimo proprietario della tonnara fu il trapanese Cav. Giovanni Adragni,  che ristrutturò la «loggia» attrezzandola anche per la produzione del tonno all’olio. La tonnara di Santa Venere concluse le attività di pesca negli anni intorno al 1920.
La tonnara «Piccola» di Pizzo, detta anche «d’ ‘a Gurna», (laghetto o piccola pozza d’acqua), ebbe una prima «loggia» situata nella spiaggetta «Seggiola», dove esistono ancora i ruderi e, successivamente, una seconda «loggia» più comoda, posta nella spiaggia del Rione Marina. Nella «loggia» della «Seggiola», oltre alla salagione, fu praticata anche la cottura per la produzione del tonno all’olio. I Marchesi Gagliardi, a seguito dell’eversione della feudalità, comprarono assieme ad altri beni ex feudali, anche le tonnare di Bivona e quella «d’ ‘a Gurna» di Pizzo, unitamente alle «logge» con le relative attrezzature e le concessioni dei «pali». Le due tonnare, che furono gestite sia in proprio che date in affitto, cessarono le attività: quella, detta «d’ ‘a Gurna» di Pizzo, a conclusione della campagna di pesca dell’anno 1963 e, quella di Bivona, qualche anno prima. Ultimi proprietari furono gli eredi dei Marchesi Gagliardi.
L’altra tonnara di Pizzo era detta «antica» o «grande» o più comunemente «tonnara d’ ‘a Praja», dal nome della spiaggia dov’era ubicata. Possedeva una bella «loggia» tutt’ora ben conservata, che era attrezzata sia per la salagione che per la produzione del tonno all’olio. Questa tonnara fu sempre caratterizzata dalla cattura di  tonni di grosse dimensioni, ma in numero limitato rispetto alla tonnara «d’ ‘a Gurna» che pescava tonni di piccole dimensioni, ma in maggior numero. Ultimo proprietario fu il livornese Sig. Giulio Magnani-Ricotti, prima che l’impianto fosse gestito dalla Società a Responsabilità Limitata «Tonnara Angitola» con sede a Vibo Valentia Marina.
La «tonnara d’ ‘a Praja» cessò la sua attività, dopo la campagna di pesca dell’anno 1956. I tonni sono animali per istinto molto esigenti nei riguardi dell’equilibrio di quei fattori che caratterizzano il loro ambiente. Compiono le lunghissime migrazioni genetiche alla meticolosa ricerca di quelle zone di mare, che offrono le condizioni più adatte. La temperatura, la salinità, la densità e la limpidezza delle acque, il clima e la tranquillità sono determinanti affinchè la procreazione possa compiersi idealmente. Anticamente i condizionamenti più frequenti erano le variazioni del tempo; le forti mareggiate, che impedivano le operazioni di pesca; l’intorbidimento e la temperatura delle acque, che a limite potevano ritardare il passaggio dei tonni. Gli altri fattori quali il disturbo provocato dal traffico marittimo e la pesca con l’uso delle sorgenti luminose, venivano regolati con severe ordinanze legislative: le navi dovevano deviare la loro rotta e passare a grande distanza dalle tonnare; la pesca delle lampare veniva sospesa nei periodi in cui si verificava il passaggio dei tonni,  essendo questi animali fototropici negativi. Un tempo le tonnare erano più o meno tutte redditizie; potevano, se mai, avere annate di magra, che venivano però compensate da annate di pesca abbondante. Alcune volte bastavano poche ore per imprigionare nelle «camere» tanti tonni da mettere in crisi la capacità delle strutture della tonnara e costringere i gestori a chiedere l’intervento di altri marinai pescatori per accorrere con le loro imbarcazioni a dare manforte alla ciurma dei tonnarotti. Altre volte era il sistema di smaltimento del pescato ad essere messo in difficoltà sia per gli scarsi mezzi di trasporto che per gli inadeguati sistemi di conservazione, allora consistenti nella sola salagione. Vecchi tonnarotti raccontano di episodi di pesca tanto abbondante che si arrivò persino a bruciare la parte del pescato, che non si riuscì a smaltire, al fine di evitare la decomposizione e le sue conseguenze.
Erano tempi in cui il verbo inquinare era conosciuto solo dagli ecologi, ma da quando cominciò ad essere più frequentemente coniugato iniziarono a verificarsi le prime gestioni passive delle tonnare, dovute alle ricorrenti flessioni delle migrazioni dei tonni. Le cause di questo progressivo impoverimento delle migrazioni generarono per anni accesi dibattiti ed infinite discussioni. Furono ipotizzate diverse teorie, intese a spiegare il preoccupante fenomeno e furono additati i più assurdi capri espiatori.
Molto significativa ed interessante è una «Memoria » indirizzata dai marinai pescatori di Pizzo, padroni di barche pescherecce, a «Sua Eccellenza il Ministro della Marina», edita dalla Tipografìa Passafaro di Monteleone nell’anno 1900. Con essa i marinai pescatori confutano alcune asserzioni contenute in un articolo pubblicato dalla «Rivista Marittima» nel numero di Dicembre dell’anno 1899, in cui il Sig. Giulio Magnani-Ricotti, proprietario della «tonnara d’ ‘a Praja», lamentava la scarsezza di pescato nel suo impianto e richiamava l’attenzione del «Governo del Re» sulle modifiche, che dovevano essere apportate ai regolamenti sulla pesca in Italia e più particolarmente a quelle più urgenti, riguardanti la pesca nel golfo di Sant’Eufemia. I pescatori di Pizzo, che già mal sopportavano il divieto di pesca con le lampare, imposto nel pe­riodo di attività delle tonnare, così ribattevano le argomentazioni del Sig. Magnani-Ricotti: «…date le premesse sulle quali fonda i suoi ragionamenti, le conseguenze che se ne dovrebbero dedurre, sarebbero quelle di sopprimere addirittura le sciabiche, gli sciabichelli, le paranze e qualunque altra forma di rete destinata alla pe­sca! Ciò, al solo lume del buon senso e dell’equità, è semplicemente un assurdo!… Giacché egli, che da pochi anni viene in Pizzo allo scopo di una speculazione, parte dal presupposto che le sciabiche, le paranze e gli sciabichelli, (che da tempi immemorabili pescano nel nostro mare).  compiano un’opera di devastazione, e siano la causa precipua della mancanza di pesca della sua tonnara. E da tre anni il ripetuto Sig. Magnani-Ricotti ha bandito, diremo così, una crociata contro questi poveri pescatori. E con incessanti querele e denunzie, e con uno zelo degno di miglior causa, addita costoro alle autorità locali ed al Governo centrale quali orde di barbari intenti solo a devastare e a distruggere… …Egli, da quel marino provetto che è, non deve ignorare che il tonno, per suo istinto, rifugge da quei punti del mare ove le acque vengono intorbidate dal riversamento dei torrenti fluviali. E siccome la sua tonnara è posta quasi parallelamente allo sbocco del fiume Angitola, è naturale che — verificandosi una stagione piovosa, e le acque del fiume riversandosi proprio nello specchio d’acqua in cui è posta la sua tonnara — i tonni, se pure trovansi diretti verso terra, retrocedono e vanno in cerca di acque più limpide. La prova di questa esperienza ce l’ha data la stessa tonnara del Sig. Magnani-Ricotti, due anni or sono : essendosi nel 1898 verificata una lunga sic­cità, il fiume Angitola, disseccandosi, non ha riversato acque torbide in mare. Ed essendo opaline le acque, i tonni affluirono in quantità considerevole nella detta tonnara. Ma il Sig. Ricotti ha avuto soltanto la soddisfazione di vedere per parecchi giorni quel ben di Dio nella sua tonnara, ma non ne ha saputo pescarne neppure uno. Quale la ragione, o meglio le ragioni? Il sistema  della sua tonnara è affatto diverso da quello delle tonnare di Pizzo e di Bivona; gli attrezzi che egli adopera sono scarsi e meschini; il personale che egli impiega è deficiente e disadatto. Ecco spiegate in poche parole le cause per le quali la sua speculazione non gli è rimuneratrice. Invece, ci saprebbe dire il Sig. Ricotti perché la tonnara di Pizzo posta ad un chilometro circa di distanza dalla sua (al di qua del golfo) ha pescato sempre? Ci saprebbe dire perché la tonnara di Bivona specialmente nello scorso anno ha pescato in abbondanza fino a tutto Luglio? E ci saprebbe dire, finalmente, perché queste tonnare non risentono quel danno che egli fa risalire all’opera devastatrice delle paranze, delle sciabiche, ecc.?…»
La «Memoria», che reca la data del febbraio 1900, è sottoscritta dai marinai pescatori, i cui cognomi, da secoli ricorrenti nei documenti della marineria pizzitana, sono così di seguito elencati: «Rais Emmanuele Pagnotta, armatore e padrone di sciabiche – Matteo Malerba fu Vincenzo, armatore di sciabiche e paranzi – Giacinto Callipo fu Carmelo, armatore di paranzi – Giuseppe Marincola, armatore di tratta – Belvedere Antonio, armatore di sciabichello – Pasquale Lavalli, armatore di sciabichelli e tratta – Giuseppe Cantafio, armatore di paranza – Leonardo Malerba, armatore di paranzi – Rais Giuseppe Malerba, armatore di paranzi – Rais Giorgio Malerba, armatore di paranzi e di sciabiche – Dom. Antonio Malerba, armatore di sciabichelli – Antonio Pettinato, padrone di sciabichelli – Alfonso Lavalli, padrone di sciabichello e tratta  –  Francesco Marincola, armatore di sciabichello  –  Rosario Marmorato, padrone e armatore di  sciabica – Giuseppe Lavalle, padrone di sciabichella – Costantino D’Ali, padrone di sciabichello e tratta – Rais Giorgio Malerba fu Raffaele,
armatore di sciabica – Domenico Montesano,  padrone di sciabichello – Antonio Marmorato, padrone ed armatore di sciabichello e tratta».
La tonnara fissa era costituita da un sistema di reti, poste verticalmente dalla superficie al fondo marino, per una estensione che, riferita al tipo delle tonnare nostrane, partendo dalla spiaggia, raggiungeva il largo ad una distanza di circa due chilometri. Tutto l’impianto era di norma saldamente fissato ad un grosso scoglio, detto della «catena», posto in prossimità della battigia, da dove partiva verso il largo il «pedale». Il «pedale» era una struttura resistentissima capace di sopportare le forti correnti marine e resistere alle frequenti mareggiate. Era formato da una serie di grossi cavi strutturati con numerosissime appendici laterali, dette «croci», mantenute fisse da un grandissimo numero di pesanti ancore di ferro. Il «pedale», che sorreggeva la rete di sbarramento, era sostenuto, inoltre, da numerosi grossi galleggianti metallici, da una miriade di
 
 
«ballette», costituite da fasci di sugheri ben legati tra loro, mentre al fondo, era ancorato a grosse pietre, dette «mazzare». L’estremità del «pedale» situata al largo, si congiungeva con un altro sistema di reti, detto «pescheria» o «isola», sistemate in un ampio spazio di mare. Le reti della «pescheria» erano disposte in modo da formare un enorme rettangolo di oltre 3000 metri quadrati, con i lati maggiori disposti parallelemente alla costa. Le strutture perimetrali della «pescheria», simili a quelle del «pedale», erano tamponate con una rete molto resistente costruita con fibre di cocco, che veniva chiamata «palamidaro». La «pescheria», completamente contornata dal «palamidaro», formava un lungo e ampio corridoio, dal quale venivano ricavati vari scompartimenti, detti «camere». Nelle tonnare di grandi dimensioni la «pescheria» poteva essere divisa, nel senso della sua lunghezza, persino in otto scompartimenti, mentre nelle nostre tonnare, che venivano dette anche «tonnarelle», gli scompartimenti erano normalmente limitati al numero di tre e venivano chiamati: «camera grande» posta nel lato nord, «camera piccola» situata quasi nella parte mediana della «pescheria» e «camera della morte» posta nel lato sud. Nel punto di congiunzione tra «pedale» e «pescheria» era praticata un’ampia apertura, chiamata «bocca» o «foratico», nei pressi della quale veniva opportunamente posizionata una rete chiamata «codardo», (dialettalmente «mustazzu» o «rivotu»), che aveva il compito di convogliare i pesci all’interno della «pescheria». Nel lato piccolo del rettangolo, che formava la «pescheria», rivolto verso sud, era stabilmente sistemato un grosso barcone di circa trenta ton­nellate, chiamato «capo rais», (in gergo caparrassu»), sul pennone del quale un fanale segnalava di notte alle navi in transito la presenza della tonnara già regolarmente segnata sulle carte nautiche. Sull’ampia coperta del «capo rais» era consentito ai visitatori di assistere alle cruente mattanze, che si svolgevano nello specchio d’ac­qua adiacente la fiancata di questa enorme barca. Compito precipuo però del «capo rais» era quello di reggere la parte terminale della rete più importante della tonnara, quella comunemente chiamata «cannamu» la quale, opportunatamente manovrata, chiudeva la porta della «camera della morte», portava i pesci imprigionati in superficie, costringendoli contemporaneamente in spazi sempre più stretti per togliere loro qualsiasi possibilità di movimento e consentire ai tonnarotti di uncinarli e catturarli. La rete del «cannamu», costruita con fibre di canapa, veniva tinta color marrone, facendola bollire in acqua con la corteccia dell’albero di pino, volgarmente chiamata «zappinu». Questa rete aveva la torma di una immensa conca, posizionata in modo da chiudere sia il fondo che le pareti della  camera della morte». Era molto resistente, dovendo sopportare il peso complessivo dei tonni  imprigionati, che doveva portare in superficie. Un lembo di questa rete era stabilmente fissata lungo la fiancata del «capo rais», da dove scendeva nei fondali per raggiungere il punto mediano della «pescheria», dove l’altro lembo della rete era agganciato ad una serie di corde, dette «naveji», che salivano in superficie, facendo capo sul bordo della seconda barca della tonnara in ordine di grandezza, chiamata «sceri». Le maglie della rete del «cannamu» erano larghe nella parte che era situata nella zona di mare sottostante la barca «sceri» e andavano gradatamente restringendosi, fino ad essere strettissime nella parte terminante opposta, situata in prossi­mità del «capo rais», dove avveniva la mattanza.
Sulla barca «sceri» stava una gran parte della ciurma dei marinai e il «rais» che la comandava. Gli uomini, una cinquantina circa, dovevano rimanere costantemente seduti e osservare il massimo silenzio; quando si alzavano tutti significava che stava accadendo qualcosa, era cioè uno dei tanti segnali indirizzati alla «loggia», che preannunciava l’inizio della pescata, detta «levata».
Nei pressi della barca «sceri» stazionavano alcune barche di media grandezza chiamate «barcacce e altre più piccole, chiamate «musciare». Quando il numero dei pesci da catturare era modesto e la loro mole non era eccessiva, le pescate venivano effettuate usando le «barcacce», sulle  quali si trasferiva la ciurma dei marinai. Se il numero dei pesci imprigionati era considerevole e formato di elementi di grosse proporzioni, la cattura veniva eseguita direttamente con la barca «sceri». Quando la «levata» assumeva carattere di eccezionaiità, oltre alla barca «sceri» tutte le altre barche partecipavano alla cattura; in quest’ultimo caso dialettalmente si diceva: «ncastejau cu’ tutti i varchi!». La piccola flottiglia della tonnara, oltre al rimorchiatore, comprendeva altre due barche, che svolgevano compiti importantissimi: una, sistemata isolatamente a nord rispetto alle altre, stazionava sempre sulla superficie della «camera piccola» e veniva chiamata «portanova», (portava la buona notizia); l’altra, chiamata «colannito» era stabilmente sistemata nel punto mediano tra le barche «sceri» e «capo rais», sullo specchio d’acqua soprastante la «camera della morte». Su ognuna di queste barche, che erano mu­nite di tende per proteggere gli occhi dei marinai dai riflessi del sole sulla superficie delle acque, prendevano posto cinque marinai: erano i tonnarotti più anziani, dotati di grande esperienza, molto esperti di meteorologia, profondi conoscitori del mare, dei pesci e delle loro abitudini. Il loro servizio consisteva nell’osservazione continua del fondo marino per controllare il passaggio dei pesci e, quando questo avveniva, dare immediatamente l’allarme. Erano costretti a rimanere dall’alba al tramonto col petto, protetto da un cuscino imbottito di ovatta, poggiato sulla sponda della barca, a fissare il mare; tenevano in mano lunghe lenze, mantenute sommerse da un piccolo peso, legato ad una estremità e versavano, di tanto in tanto, gocce d’olio d’oliva sulla superficie del mare per renderlo più trasparente. Quando le lenze venivano urtate dal passaggio dei pesci, i marinai di «portanova» e quelli di «colannito» avvertivano la «toccata, dalla quale riuscivano a cogliere i segni per individuare la natura dei pesci, la mole e il numero approssimativo del branco.
La pesca avveniva nel seguente modo: i branchi di pesci, in cerca di ambienti adatti alla loro riproduzione, passavano nel nostro mare, seguendo invariabilmente la rotta nord-sud. Quando incontravano lo sbarramento del «pedale», deviavano verso il largo, lambendo la rete in cerca di un varco. Lo trovavano nel «foratico», l’imboccatura attraverso la quale penetravano nella «pescheria», guidati anche dalla rete del «codar­do», posizionata in modo da convogliarli den­tro. Entrati dentro la «pescheria» non riuscivano più ad uscire, perché impediti dalle reti del «foratico» e anche perché ritornare indietro era contrario al loro istinto. I pesci, alquanto disorientati, stazionavano nella «camera grande», fin quando decidevano di intraprendere l’unica via diretta verso sud che era concessa loro. Passavano così nella «camera piccola», urtando le lenze che facevano capo ai tonnarotti, di guardia  a bordo della barca «portanova», i quali davano subito la buona notizia gridando: «Toccau!». Questo grido rompeva il silenzio, metteva in stato di allarme gli uomini della ciurma, in attesa sulla barca «sceri» e richiamavano l’attenzione di quelli di guardia sulla barca «colannito». Seguivano attimi di attesa che sembravano durassero un’eternità. Intanto i pesci, proseguendo il loro fatale cammino, dalla «camera piccola», passavano nella «camera della morte», urtando le lenze tenute dai tonnarotti della barca «colannito», i quali, dai segni delle «toccate», davano conferma gridando: «Leva, leva, tira!» sei pesci imprigionati erano tonni; «Tira ‘a porta» se erano pesci spada e «leva, leva!» se erano «pisci minuti», (tonnetti in genere). Al primo grido di «toccau», lanciato dagli uomini di «portanova», la ciurma dei tonnarotti della barca «sceri» si alzavano tutti, slegando le corde «naveji», che tenevano il lembo del «cannamu», poggiato sul fondo del mare. Quando il grido dei «colannitari» confermava il passaggio dei pesci nella «camera della morte», gli uomini della barca «sceri» tiravano subito le corde, sollevando la parte terminale del «cannamu» che, alzata, fungeva da porta e chiudeva ermeticamente la trappola. Il «rais», dopo essersi accertato della natura dei pesci imprigionati, della loro mole e della quantità, faceva issare sul pennone della barca «sceri» la bandiera tricolore, se erano tonni, la bandiera bianca se erano  pesci spada e quella nera se erano «pisci minuti», dando altre indicazioni alla «loggia» con i soliti segni convenzionali. Nel caso in cui il numero dei pesci imprigionati era considerevole, si operava in modo da far passare nella «camera della morte» solo una parte del branco, rimandando a «levate» successive la cattura degli altri. Chiusa la «camera della morte» iniziava l’azione di avvicinamento delle barche verso «capo rais»; l’immensa conca formata dalla rete del «cannamu», manovrata dagli uomini della barca «sceri», cominciava ad accorciarsi e a sollevarsi dal fondo marino. La ciurma dei tonnarotti manualmente sollevava la pesantissima rete, rivoltandola all’indietro per farla ritornare sul fondo della trappola nella sua giusta posizione per essere già pronta alle «levate» successive. L’azione faticosa dei marinai, lenta ed inesora­bile, procedeva a ritmo del canto di un’antichissima nenia, in cui il tonnarotto manifestava la propria pietà per il massacro che stava provocando e implorava anticipatamente perdono alle innocenti vittime, cercando di giustificare i suoi gesti con le urgenti necessità legate alla propria sopravvivenza e con quelle più pressanti della sua famiglia, nell’intento di spogliare la locuzione «mors tua vita mea» da qualsiasi senso di feroce egoismo, in quanto egli, misero marinaio, si sentiva, a sua volta, vittima delle circostanze della vita. I tonni correvano, guizzando disperatamente,  alla ricerca di una via di scampo, avendo ormai perso qualsiasi logica, legata all’istinto della riproduzione; la loro corsa diventava più frenetica man mano che lo spazio si restringeva e pro­vocava loro il senso di asfissia, dovuto alla carenza di ossigenazione. Lo spettacolo, più che folkloristico, era da considerarsi fortemente drammatico: i tonni, ormai impazziti, si urtavano violentemente gli uni con gli altri, colpendosi spesso con poderosi colpi di coda. La terribile strage aveva inizio quando il «rais» dava il via alla mattanza: i tonnarotti, armati di lunghi arpioni, agganciavano le povere bestie e con grande abilità le sollevavano e le buttavano sulle barche, sfruttando lo slancio dell’animale ferito e dolorante, che saltava fuori dall’acqua. Il mare, completamente arrossato dal sangue, destava raccapriccio anche agli stessi tonnarotti, avvezzi ormai a simili spettacoli. Anche se in quella vicenda la parte più nobile non era certo rappresentata dall’uomo, un senso di sincera pietà albergava nell’animo degli umili tonnarotti, tanto che spesso molti di essi, a tu per tu con il tonno arpionato, cercavano di rabbonirlo, carezzandolo con le mani, prima di tirarlo fuori dall’acqua.
Conclusa la mattanza, le barche con la ciurma dei tonnarotti, ritornavano ai loro posti per essere pronti ad eseguire nuove «levate». I tonni, caricati sulle barche, venivano portati dal rimorchiatore alla «loggia» per essere smerciati.